Silentium
Le investigazioni scientifiche del secolo, volte con pervicace tenacia ad aggredire la struttura dei complessi esistenti, dal campo spirituale (psicanalisi) a quello materiale (disintegrazione) hanno indubbiamente percorso un impressionante cammino.
Hanno sradicato superstizioni radicatissime, hanno disorientato credenze, fedi ed etiche collettive, senza però surrogare i valori corrispettivi con alcunché di rassicurante e di costruttivo per la pace e l’equilibrio dell’animo umano.
Scorre, anzi, frammezzo alle ricerche ed alle conclusioni della scienza, un rivolo minaccioso, che, corrose le basi e determinato il crollo di innumeri valori preesistenti, ombreggia cupo l’incubo, di gravi distruzioni, coerentemente alla caratteristica stessa dell’analisi, che a tal prezzo è perseguita dall’intelletto e dalla volontà dei suoi adoratori.
Siffatta scienza, pertanto, è ben lungi dall’assurgere a quella mirabile «sapienza» che i nostri antichissimi progenitori attinsero, levandosi con volo d’aquile verso le supreme sintesi dello spirito e non potrà – come quella – solcare i secoli recando un messaggio di redenzione o di superamento, benché folleggi, ebbra dei suoi mercantili successi.
Essa si affanna in propaganda, in volgarizzazioni, in comunicati, radiotrasmissioni, in proiezioni e televisioni, ansiosa di persuadere, di convincere, di affermarsi, diffondersi, sbalordire e stordire.
E’ giovanile ed impetuosa, orgogliosa e ribelle, infatuata e multiparolaia.
E ne ha bisogno, perché dubita di se stessa.
Con miliardi di parole bombarda i nuclei mentali, interrompe la continuità del pensiero, lo frammenta, lo frastorna, lo disorienta e lo annienta, perché – incerta dei suoi postulati – ambisce al consenso generale per dissociazione di critica, alla quale dovrebbe rispondere dei suoi non pochi misfatti.
Si veste di volgarizzazione e pretende di squarciare innanzi agli occhi delle masse quel velo di Iside che soltanto il Sinedrio occulto degli antichi iniziati poté sollevare, rinnegando così gli aristòcrati del pensiero che, evasi dai serrami delle costruzioni mentali, pervennero a codesto oriente luminoso, consapevoli del lunghissimo tempo necessario all’ascenso dei volghi, ma preparandone l’avvento con dottrine salutari.
Tutto ciò, ai fini di una reale evoluzione umana, non ha prestigio alcuno, ma prepara soltanto rinomanze e ricchezze agl’improvvisatori, che vivono sul fascino delle novità e sugli espedienti pubblicitari.
Analogamente, coloro che, non avendo in se stessi alcuna consistenza, intendono tuttavia prevalere sugli altri, vivono di forti risonanze esteriori, provocano rumori, fanno chiasso, fracasso e schiamazzo: i ciarlatani, i conferenzieri a lungo metraggio, gli oratori tribunizi, i predicatori pretensiosi, i politicanti e i comizianti, parlano, parlano, parlano, ed oggi per di più col microfono, nella regìa fanfarona e reclamistica di infausta importazione, che tanta fortuna ha sulle turbe, malgrado le vittime che falcia tra le fila degli intontiti uditori.
La sapienza antica, invece, condensava in poche formule, in pochi geroglifici, in pochi miti o misteri, le principali verità che conosceva e le proponeva alla mente umana con metodo sfingetico, imponendo all’anima una sosta pensosa, un raccoglimento, una concentrazione purificatrice, preludio e requisito indispensabili all’intelletto per discernerne i reconditi significati.
E ancora oggi, monumenti che sfidano il corso dei secoli e costrutti morali sparsi nel fondo di tutte le religioni costituiscono il mistero più ascoso circa la sorgente solare a cui gli antichi iniziati rapirono la favilla della loro vasta, indistruttibile dottrina, la quale, sebbene resa opaca dalla piatta interpretazione delle chiese e delle sette decadute, illumina ancora col suo chiarore il fondo di innumerevoli coscienze umane.
Tale dottrina esisteva prima che la colluvie degli scienziati straripasse dagli argini universitari per dilagare nel mondo inquieto e perplesso e culminò nei nomi di Krisna, Budda, Mosè, Orfeo, Pitagora, Cristo.
Costoro ignorarono i premi Nobel, ignorarono la dinamite, la disintegrazione atomica e la bomba a idrogeno, che grandeggiano sadicamente sulle immani distruzioni, eppure vissero e sopravvissero, impressero ai secoli il calco della loro possente personalità, configurarono epoche, modellarono la mente di milioni e milioni di seguaci, coordinandola al Bene universale: furono, sono e saranno la vera, unica via alla verità e alla vita.
E ciò col prodigio di pochi simboli e di poche parole, testimoniati dallo splendore della loro esistenza e dai fatti sorprendenti che grandiosamente vi si connettono.
Fare, dunque, e tacere, perché i fatti parlano ai colti ed agli incolti e, quale ne sia la causa, s’impongono alle coscienze nelle riserve indistruttibili dell’IO.
Ed eccoci già ad una parola usata ed abusata, che a nessuno rende ciò che precisamente vuol significare, perché quando si parla di albero, ad esempio, o di seme, o di altro che abbia una concreta rispondenza oggettiva nel campo della realtà è possibile alla mente evocarne la immagine e comprendere, mentre quando si dice IO non si saprebbe stabilire esattamente di che cosa si tratti, eppure si nomina la suprema realtà dell’Essere, che, fra le bende dell’involuzione umana, «non traspira intero il prezioso scintillio del suo tesoro».
Fare, dunque, e tacere, perché nel silenzio prendono risalto le voci dello spirito.
Fare e tacere, perché il silenzio consapevole di chi nutre in sé un proposito ne dinamizza l’essenza.
Fare e tacere, perché l’ascenso è via dell’Assoluto, sintesi delle sintesi, irriproducibile dalla parola umana, la quale, peraltro, come veste del pensiero, e sua manifestazione nell’utero della sonorità esteriore, consegue valore di forma e, perché tale, ne subisce il destino della contingenza e della caducità, come è dimostrato dai suoi vari spostamenti di significato e dagli arcaismi relegati nelle tombe delle lingue morte.
In una parabola degli evangeli apocrifi si narra che Gesù, quando era bambino, si divertiva un giorno a fabbricare coi suoi coetanei degli uccelletti di creta.
Ciascuno magnificava il proprio lavoro con grida di entusiasmo e con paragoni e vanterie. Ma egli taceva.
Però, quando ebbe finito, batté le mani e gli uccelletti volarono.
Silenzio, dunque, e lavoro.
Silenzio ed amore.
Silenzio e preghiera.
Nelle chiese e nei chiostri: silentium.
E il divino riaffiora.
Nei campi tranquilli: silentium.
E il Gran Pane sussurra.
Nella vasta solitudine del mare: silentium.
E l’anima spazia nell’infinito.
Nelle altezze dell’atmosfera: silentium.
E l’arcano degli abissi si svela.
Nelle passioni turbolente: silentium.
E l’equilibrio dell’animo si dischiude.
Silentium... Silentium... Silentium...
E palpita il murmure del Nume Rivelatore.
Hahajah
A cura dell’Accademia Kremmerziana Patavina