La religione nei nostri atti
Gli ostacoli che incontro durante la costruzione del mio albergo «per me solo» sono in me, non fuori di me. «Fuori di me» esisto solo io e così voglio provare a penetrare in me.
Le cose vorrei sempre che fossero già fatte, prima che io cominci a farle. Fisso anche il tempo nel quale dovrebbero essere terminate e divento molto inquieto quando il Buon Dio insiste sul tempo suo per completarle.
Perché tanti atti della mia vita devono essere privi di gioia e fastidiosi? Perché la mattina il vestirsi deve essere una fatica frettolosa e sgradevole? So di un anglosassone che si sparò perché non sopportava la routine della toilette quotidiana. Perché devo infilarmi nei miei vestiti immusonito, come in una fossa?
Perché è così fastidioso accendere il fuoco nella stufa? Per quale motivo non posso accostare con cura i pezzetti di legna, con rispetto, usando un po’ di cervello perché possano prendere fuoco nel modo migliore e ardere per il meglio?
Le piccole cose giornaliere (che sono il novantanove per cento della nostra esistenza) ci torturano tanto perché le trattiamo male e diventano insopportabili come cavalli sfiancati o bambini trascurati. Non esiste forse un «modo peccaminoso» e un «modo illuminato» per preparare il fuoco? La vera religiosità consente la sciatteria? Non dovrebbe «religione», cioè luce, benevolenza, raccoglimento permeare ogni atto della vita? Perché spreco con irritazione e impazienza il triplo della forza per infilare un paio di stivali, mi faccio stancare e rendere di malumore per ore, quando invece un po’ di abilità, un po’ di attenzione investita nel sondaggio delle leggi dei lacci delle mie scarpe farebbe diventare il tutto un gioco?
Premi mondiali vengono offerti a chi riesce a mandare una palla tra due pali o dentro una rete. E tutta l’umanità trattiene il fiato! Si inchina a questi valori fittizi. Bisognerebbe fondare dei premi mondiali per chi sa pulirsi i denti nel modo più gioioso o per chi allaccia gli stivali nel modo più geniale, in modo che il tran-tran quotidiano perda la sua spina e diventi sport e gioia.
Ma la gente pensa che le cose vadano avanti anche così! Allora come mai va tutto storto con la minima fretta? Perché nel banale manca la tecnica. L’insignificante è sempre pericoloso. Napoleone perse la battaglia decisiva per il trono e il mondo perché non aveva dormito a sufficienza.
Se soltanto non ci fossero i miei stivali la mattina, come potrei essere simile a Dio! I cinque minuti che spreco quotidianamente nella lotta con loro assommano, accumulati, a molte giornate che avrei potuto impiegare più utilmente per la gioia. E tutto questo per pura stupidità, pigrizia e irreligiosità. La pigrizia è la sorgente di ogni fatica. Guardate i vestiti in questa stanza! Buttati malamente qua e là; distribuiti irrazionalmente, due posti per una cosa o due cose in un posto (soltanto i calzini no).
Perché la mattina talvolta impiego tanto tempo per essere pronto e ansimo dalla fretta?
Perché la sera prima, pensando ad altro, ho fatto cadere i gemelli della camicia nella ciotola da barba?
Per questo motivo un amico mio ha un lavandino pieno di gemelli di riserva nella sua stanza da toilette. Ma questa non è la strada giusta! Una filanda si potrebbe azionare con le forze di cavallo-vapore che ho sprecato nella ricerca del calzatore.
Ma peggio ancora: il comportamento sciatto mi è penetrato nell’anima, è diventato la mia seconda natura. Esso si manifesta quando metto del carbone nella stufa e l’acqua nella teiera - senza dignità: una parte del carbone va nella stufa, una parte al di sopra e il resto per terra. Il resto è più grande. E con la teiera, un po’ dell’acqua entra, un po’ scorre all’esterno, questo perché mi impunto e vedo il preparare la stufa e il riempire la teiera come una fatica da liberarsene al più presto. Così commetto un peccato, il peccato porta già in sé la punizione. La punizione è una sensazione di ansia data dall’impazienza. Ma è una punizione con interessi, perché devo fare dei «minuti di straordinario» per raccogliere il carbone sparso e per asciugare l’acqua versata, quindi ancora più fatica, spreco insensato di forze e di buon umore.
Di cosa vado in cerca su questo pianeta? Di Felicità.
Bene, essa ci sarà data in quanto serviamo il Signore. Ma questo «servire» forse non si trova anche nelle cose più infime, nelle cosiddette «piccole cose» della vita? Sul tavolo vi sono dei piatti sporchi. Devo loro permettere di offendere i miei occhi con la loro sporcizia? Non è la pulizia la qualità più vicina alle sembianze di Dio? E con quale stato d’animo laverò questi piatti? Se li laverò con fretta, inquinando così il mio stato d’animo con la loro sporcizia, chi allora renderà nitido il mio buon umore? Oppure userò la stessa serietà e cura con la quale dipingerei un quadro? Avrò di certo una sensazione di soddisfazione quando questo oggetto sporco e grigio è ritornato con facilità, sicurezza e precisione un caro piatto bello e pulito. Questo non è forse adorazione? E adorazione è pena o gioia? Quando si lavano i piatti si può servire il Signore o il diavolo. Non trionfa forse l’inferno quando lavando i piatti lascio gli schizzi dell’uovo sul bordo e poi, asciugandoli, sporco senza ragione il panno? E facendo questo, non semino un’infinita semenza di piccole sfortune per il giorno seguente?
Perché non ho assegnato un posto preciso alla mia spugna da bagno?
Perché questa spugna triste, solitaria e senza tetto la trovo sempre e ovunque? La tolgo di mezzo e la trovo tra i piedi altrove. Perché è diventata una pena per gli occhi? Ogni volta che la guardo mi fa pensare. Perché la sento come una pressione umida sulla mia coscienza?
Perché sono un peccatore… Perché sono troppo pigro per dedicarle quei cinque minuti a trovarle un posto fisso, razionale e comodo. Perché mi rifiuto di richiudere la spugna nella mia religione, che invece dovrebbe abbracciare tutto il mondo.
Perché disprezzo l’inferiore e l’insignificante.
Perché ogni giorno decado dallo stato di grazia e non do a ognuno il suo (vedi caso spugna). Adesso veramente so perché sono il peggiore tra i peccatori!