Prima Lettera

Iniziamo la pubblicazione delle sette lettere sul Lume Eterno che il principe Raimondo di Sangro inviò al suo amico accademico della Crusca Giovanni Giraldi. Essendo state scritte intorno al 1750, il linguaggio risulterà un po'  datato, ma comprensibile. Per informazioni sul principe di Sangro, vedi in archivio all'autore FDA.

   Eccomi puntuale mantenitore di quella promessa che vi feci colla lettera della passata settimana per rispetto alla narrazione della mia meravigliosa scoperta. Io credea allora di poterla interamente ristringere in una lettera, ma ho dovuto poi, nell'atto dello stenderla, d'essersi essa renduta bastante materia per tre e quattro lettere; onde ho giudicato miglior partito di tener sospesa la vostra curiosità che di rendermi soverchiamente tedioso con una lettera troppo prolissa. Or venghiamo al fatto. Nel mese di luglio del passato anno essendomi applicato a una operazione chimica col disegno di fare alcune fisiche esperienze, dopo essermi essa costata la fatica di ben quattro mesi in circa di lavoro, m'accadde finalmente una sera degli ultimi giorni di novembre che, nello sturare verso un'ora di notte quattro orinaletti di vetro da stillare che io tenea innanzi a me su d'un tavolino, appena la materia, in uno di essi contenuta, del peso d'una quarta parte d'oncia meno sette grani, fu da me accidentalmente approssimata a un cerino, che tosto s'accese e alzò una bella e viva fiamma, la quale inclinava al gialletto.
   Io rimasi tanto confuso a quell'impensato accidente, che non sapea a qual partito appigliarmi: alla fine mi cavai in fretta di tasca il fazzoletto per levare, senza scottarmi, quell'orinaletto dal tavolino su cui stava e passarlo ad un'altra vicina tavola; affinché nel crepare, siccome io temea, non si fosse sparsa la fiamma pel tavolino e avesse quindi accesa la materia contenuta negli altri orinaletti parimenti sturati. Vorrete dirmi che sarebbe stata più naturale e propria cosa di tor via i tre orinaletti freddi che non toglierne quello la cui materia andava tutta in fiamma, coll'imminente pericolo di scottarmi. Ma chi sa se voi, trovandovi nella medesima improvvisa mia confusione, non avreste fatto lo stesso? Il presi dunque e allorché credea d'essere esso ardentissimo, trovai che appena era poco più che tiepido; onde potea senza il minimo incomodo tenersi colla nuda mano. Lasciai che continuasse ad ardere la detta materia per osservarne la durata; ma erano già le ore sette della notte e pure, dopo sei continue ore di accendimento, la fiamma era tanto piena, viva e nudrita che parea d'essersi allora accesa. Veduto ciò, deliberai d'andarmene a dormire e d'estinguer la fiamma: ma nel soffocarla con lo stesso cappelletto di vetro che serviva di coperchio all'orinaletto, con mio sommo stupore m'avvidi ch'esso conservava, dopo sei ore d'accendimento, quello stesso grado di tiepidezza ch'io in lui osservai allor che lo tolsi dal tavolino.
   La mattina seguente mi levai di buon'ora di letto, avendo già la notte molte cose rivolte nel mio animo, e corsi subito all'orinaletto. Lo sturai di nuovo e procurai di riaccenderne la materia, ma non fu possibile di riuscirmi. Cominciai a rivoltarla con uno stuzzicorecchi d'avorio e allora da esso scappò fuori una piccolissima e momentanea fiamma, siccome appunto accade collo spirito del vino quando non è ben rettificato e contiene della molta flemma. In somma adoperai ogni arte per riaccenderla, ma qualunque mio sforzo fu vano. Dopo questa sperienza mi cadde il pensiero di pesarla, giacché mi parea di non essere punto diminuita e d'essere di quella stessa consistenza che avea la sera antecedente prima di accendersi, cioè a guisa d'un butirro molle in tempo di state. E difatto, nel pesarla, trovai con mia estrema meraviglia ch'essa non era scemata neppure un atomo del primo suo peso. Che vi pare, amico caro? Comincia o no la cosa a farsi seria e sorprendente? Ma questi non saranno al certo se non i primi gradi del vostro stupore. I riferiti meravigliosi successi mi colmarono la mente di tanti pensieri che per tre o quattro giorni non fui capace di pensare a veruna altra cosa: onde mi stetti in quel tempo chiuso in una camera, meditando soltanto sui fatti accaduti e formando dei sistemi, i quali aveano per me altro fondamento che quello di una mera ipotesi. Alla fine mi determinai di tirare innanzi l'esperienza, così per meglio assicurarmene che per investigare le cagioni di sì stupendo fenomeno
   Pensai quindi subito di formare una specie di candela; e presa una porzione di materia, che stava in uno dei tre orinaletti, la posi in un picciolo tubo guarnito del suo coperchio e buchetto; ci accomodai poscia un lucignolo che ha la virtù,  conosciuta per altro dai Fisici, di non sofferire alcun oltraggio dal fuoco; ed untane ben bene colla detta materia quell'estremità, che stava al di fuori del buco, accostai ad esso la fiamma d'un cerino; ma per quanta diligenza avessi usata, non ci fu verso alcuno di farlo accendere. Non è da potersi immaginare com'io fossi rimasto allora, nel vedere andare in fumo il mio disegno. Mi risolsi finalmente di torne via il detto lucignolo e il coperchio e di dar fuoco alla materia, sulla persuasione di doversi almeno questa accendere, siccome era quella prima sera accidentalmente avvenuto; ma furono vani tutti i miei tentativi. Postomi allora a sedere mi diedi ad immaginare che forse la troppa pochezza della materia ne fosse la cagione; perciò, fattomi animo, ne ritentai l'esperienza; e rimesso il lucignolo e il coperchio al suo luogo, non però interamente assettato, posi il tubetto nella bilancia e presi ad aggiungerci dell'altra materia col solito stuzzicorecchi: né andò in vero fallimento la mia aspettazione; poiché arrivata che fu la materia, ch'io andava rifondendoci a poco a poco, al peso della quarta parte d'un'oncia meno 27 grani, oltre all'importo del lucignolo, ecco che tosto, né pure del tutto accostato alla fiamma del cerino, prese fuoco quel lucignolo, il quale fino a quel punto non s'era potuto giammai in vari replicati accostamenti accendere. Presi allora coraggio e per meglio accertarmi s'era necessario che la materia fosse stata precisamente nella suddetta quantità per essere atta ad accendersi, sollevai prima alquanto più il lucignolo, il quale è duro di sua natura, ed unitamente il coperchietto; e poi col mio stuzzicorecchi cominciai a torre da esso la materia con quel metodo di pochissima quantità per ogni volta di cui appunto mi ero servito nell'andargliela aggiungendo; ma non sì tosto n'ebbi tolto poco più d'un grano di peso che la fiamma cominciò ad agitarsi a segno tale che stava già per estinguersi. Accorsi io subito col rimettere nel tubetto quella poca porzione di materia che ne avea levata ed all'istante  ripigliò di bel nuovo il primiero spirito, né più si agitò la fiamma. Questa era molto più picciola di quella che fanno i lumi di cera o d'olio; ed era, siccome dissi, inclinante al gialletto. Tenendo sopra esso la mano, alla distanza di quattro dita, scottava a segno che non potea sofferirsi il dolore. Se mai se le accostava una candela smorzata, tosto l'accendea; siccome fanno tutte le altre usuali candele. Ripassando su d'essa una carta, ne rimanea affumata. E finalmente il lume che mandava non era troppo brillante; però bastava a potersi leggere col suo soccorso qualunque scrittura.
   Avendo io attentamente osservate tutte queste cose, volli far pruova d'aggiungerci maggior materia: discorrendo meco medesimo che siccome col torne dal vasetto una picciolissima porzione della descritta dose s'andava la fiamma ad estinguere; così coll'apporcene di vantaggio avrebbe dovuto la fiamma acquistare e più spirito e più bellezza. Eseguii col mio stuzzicorecchi la presa risoluzione e andai tanto innanzi che arrivai a metterci tutta quella dose che stava nell'orinaletto e ch'era del peso di venti grani di più della quarta parte d'un'oncia; onde venni in tutto a rifonderci 47 grani di materia: ma vidi che questo nuovo accrescimento a nulla giovava, poiché la fiamma rimanea nel suo essere di smorta e di picciola tal quale era prima. Sospettai allora che potesse ciò provenire dal lucignolo, il quale non era di cotone, secondo che si è detto; e perciò, fatto un altro lucignolo della stessa specie di quello che stava nel vasetto, lo posi in una lucerna di olio; e accesolo, vidi che facea lo stesso lume chiaro e lungo che avrebbe fatto se fosse stato di cotone; onde conchiusi che'l difetto proveniva dalla materia e non dal lucignolo: né io potea servirmi d'uno di cotone, poiché avrei fatta una sperienza inutile al mio fine, siccome appresso sentirete. Perduta dunque ogni speranza di avere un lume più chiaro e più brillante, presi pian piano il vasetto della materia accesa per portarlo in uno stanzino, ma appena diedi quattro passi la fiamma cominciò ad agitarsi in un modo come se fosse stata mossa da un gran vento; allorché peraltro tutte le finestre eran chiuse, né spirava aria veruna. Mi fermai io allora e postolo su di una vicina tavola vidi che cessò in buona parte, ma non in tutto, l'agitazione della fiamma.
   Avendo pensato che qualche picciolo vento, da me non sentito, ne fosse stata la cagione, presi un foglio di carta e, formatogliene una specie di riparo, collocai in mezzo ad esso il mio lume. Ma, oh Dio, qual paura io non ebbi nel far ciò! Poiché l'agitazione cominciò a crescere di tal sorta che vidi il mio lume quasi in procinto di spegnersi. Minoratasi poi a mano a mano di molto l'agitazione della fiamma io, preso di bel nuovo in mano il vasetto della materia allumata, proseguii il mio brieve cammino a passo di piombo; e il lume, comecché fosse circondato dal gran riparo che lo difendea dall'aria, facea ciò non ostante di tanto in tanto certi moti, forse più violenti di que' che non facea allor che non era di ben custodito. Finalmente, come a Dio piacque, lo portai nello stanzino; indi, fatta serrare la finestra fino co' legni, gli tolsi d'attorno la carta che lo circondava e postolo sopra un tavolino a un piede feci serrare anche la porta per escludere ogni introduzione d'aria. Ma il credereste? L'agitazione della fiamma non cessò, se ben si fosse minorata di molto. Io trasecolava per questo accidente, conoscendo benissimo che non era nello stanzino minima alterazione di vento; onde cominciarono a passarmi mille idee per la mente. Stando così mezzo astratto andava toccando con le mani il tubetto che contenea il lume; e casualmente m'avvidi che tenendolo alquanto alzato da una parte verso la destra cessava tosto l'agitazione della fiamma e questa facea la sua giusta piramide; ma quando poi pel contrario l'alzava un poco erso la sinistra, l'agitazione cresceva allora smisuratamente.
   Quella sperienza, replicata più volte, mi fece accorto che'l lume per istar fermo e non agitarsi bisognava che fosse collocato in un sito perfettamente perpendicolare e che per ben ciò riuscire era uopo livellar prima il tavolino e far poi che il tubetto cadesse a perpendicolo sopra il medesimo. Eseguita da me esattamente quest'idea per mezzo di un perfettissimo livello ad acqua, il lume si rendette fermissimo, eziandio dopo essersi aperta la porta dello stanzino. Rimasi io allora così contento di questa nuova e strana scoperta che stetti per qualche ora sedendo a fare all'amore a solo a solo, per così dire, col mio nuovo fenomeno; e quindi aperti i legni della finestra e lasciando chiuse le sole invetriate, serrai lo stanzino colla chiave per far la pruova della durata di quel lume. Non è credibile quanto io fossi stato frequente nel visitare in tutte le ore l'amato oggetto; sempre però con batticuore per la tema di non trovarlo estinto: ma il fatto sta che da quel tempo, cioè dall'ultimo giorno del passato novembre fino a due del corrente mese di marzo, ho trovato il detto lume sempre acceso, sempre senza moto nella sua fiamma e sempre di quella stessa vivacità e lunghezza di fiamma che avea mostrato d'avere fino dal bel principio; e quel che poi finalmente finì di colmarmi di stupore si è che avendone nuovamente nel suddetto giorno de' due di marzo pesata la materia, la trovai tal quale dello stesso peso, senza la minima diminuzione di quello che avea allor che tre mesi innanzi l'accesi.
   Io penso bene che voi, leggendo questa mia lettera, ad alcuni luoghi di essa vi sarete riso delle mie paure e ad alcuni altri delle mie allegrezze e m'avrete preso senz'altro in conto di que' sì fatti Fisici sperimentali, per non dir Soffiatori, i quali per ogni che s'accendono stranamente di fantasia; ma non vi riderete più di me dopo aver voi dalle altre susseguenti mie lettere finito d'intendere tutta la stupenda storia del portentoso avvenimento; le gravissime conseguenze ch'io mi son studiato di trarne e il sublime disegno che ci ho formato sopra. Per ora contentatevi ch'io qui mi rimanga dal più lungamente seccarvi, giacché questa mia lettera, essendosi ormai renduta troppo lunga, mi farebbe reo d'indiscrezione se pensassi di condurla più innanzi.