Dalla terra risale al cielo...
Si è letto più volte che il nostro Hermes, in quanto messaggero degli dèi, “dalla terra risale al cielo, e subito ridiscende in terra; raccoglie così la forza delle cose visibili e delle invisibili” (Tavola di Smeraldo).
Il duplice moto di questo messaggero – enucleato ad Arte – corrisponde alla duplice direzione in cui l’essere può dirigere la sua forza: dapprima egli impara a “montare al cielo”, con un movimento ascendente il cui presupposto è l’astrazione totale dalle catene terrene, almeno per un istante abbastanza lungo da librarsi al di sopra della personalità, della storia individuale, del corpo, e spaziare nella regione ove dimora il Pensiero, libero e puro, che dà forma al mondo.
Da questo etere rarefatto egli trae la ragione delle cose e percepisce, al di là dei desideri e delle aspirazioni personali, ciò che può essere o non essere secondo la Legge, spingendosi a divenire tutt’uno con l’Idea che intende esplorare.
Ma una volta conosciuta la grande felicità della Mente libera, “discendere in terra” indica, da un lato, la facoltà dell’intelletto di influire sul mondo lunare, il quale, ingravidato dal pensiero, genererà poi i suoi effetti nel mondo materiale: il primo senso di “discendere” è, quindi, potestà di generare.
Ma generare che cosa?
Per comprenderlo, dobbiamo pensare che una Mente libera non può desiderare nulla per sé, perché non ha bisogno di nulla: in lei sono la quiete, la perfezione e il calmo dimorare dell’Essere che basta a se stesso.
Quindi, la possibilità di questo moto discendente non significherebbe nulla, se svincolato dalla sensibilità dell’essere per i dettami della Legge. Nel Credo kremmerziano, ad esempio, sono enumerate tutte le virtù dell’Essere, le buone qualità attraverso le quali si manifesta: da nessuna parte leggiamo “credo nell’attaccamento, nell’odio, nell’egoismo e nell’indolenza”. Chi, dunque, pensa di ottenere l’ascesa all’Essere per i proprio scopi inferiori, certamente non conosce l’Essere: quando lo conoscerà, penserà diversamente.
Del secondo aspetto del “discendere”, appunto, ci occuperemo in questo scritto.
Inizieremo dal considerare che, per poter realmente influire sulla generazione degli effetti nel mondo, bisogna conoscere la Natura: ciò che essa richiede affinché un seme divenga pianta, come individuare un terreno fertile o, se questo non esiste, come preparare la terra affinché accolga il seme.
Ogni cosa, infatti, per nascere, ha bisogno che si manifestino le condizioni armoniche necessarie alla sua buona crescita, e in ciò la fretta di vedere realizzata un’idea può essere cattiva consigliera e generare aborti o organismi in equilibrio precario, che non sopravvivranno a lungo pur richiedendo moltissime cure.
Al contrario, un’opera generata secondo Natura abbisogna di minore sforzo per la sua conservazione e crescita, giacché il Filosofo, in quest’opera, altro non fa che tessere un legame tra il suo pensiero-seme e l’armonia delle cose: in tal modo la forza universale compie il suo corso naturale e l’uomo l’adiuva con le sue cure, accelerando i tempi ed estirpando tutto ciò che impedisce una buona crescita.
Per questo, in molte culture, l’iniziato fu chiamato anche “agricoltore”.
Ecco che, conoscendo i principi della generazione, l’uomo può a sua volta divenire demiurgo del mondo che lo circonda, o per lo meno sforzarsi di riprodurre l’armonia che ha conosciuto intorno a sé.
Nella vita universale, Intelligenza e Moto sono allo stesso modo presenti e operanti, ed è per questo che il simbolo dell’avvenuta congiunzione dei due luminari dall’uomo è stato indicato come l’unione tra microcosmo e macrocosmo, simboleggiato dalla stella a sei punte: tale simbolo altro non cela che la completa rettificazione dei principi universali contenuti nell’uomo, onde essi rincrudiscano fino alla loro completa separazione dalle scorie terrene.
D’altro canto, questa unione non sarebbe possibile senza il risveglio dell’intelligenza del cuore, che è il preludio all’Intelligenza ermetica, il quieto intelletto, il Pensiero puro.
Il Tetragramma, simbolo principe dei cabalisti ebrei e rappresentante la piena potestà del Geova realizzante, è da noi ermetisti conosciuto sotto il nome di Nun-Eà, ove Nun è il meccanismo di vita fatale e ineluttabile, la ruota delle esistenze, il fluire della vita che si riversa in se stessa, ed Eà è il principio intelligente, agente come causa.
Chi fu questo Eà, per gli antichi? Secondo il mito, Eà fu il primo dio amico degli uomini, colui che amò l’umanità sopra ogni cosa e rischiò il suo stesso posto nell’Assemblea degli dèi per venire in suo aiuto.
I sumeri lo conobbero sotto il nome di Enki (di cui Eà è una traduzione in lingua akkadica, ma che conserva gli stessi caratteri), e della sua alleanza con gli uomini si parla nel poema di Atrahasis/Ziusudra, composto – nella forma che ci è nota, sebbene sia pacifico che si tratti di un testo ben più antico – nel 1646 a.C.
In tale poema rinveniamo, condensati, i principi che la scienza magica ebbe presso gli antichi abitatori della Mesopotamia.
Quando il dio del cielo, Enlil, volle sterminare la razza umana a causa del chiasso che impediva il suo sonno, Enki – dio della saggezza, delle acque e della magia – stipulò con il saggio tra gli uomini, Atrahasis, un patto che fu sigillato dalla Stella del Mattino, Venere, Signora dell’amore. Questa, a sua volta, divenne il custode visibile dell’alleanza tra Enki e la razza umana, tanto che, per ancora un millennio, qualunque sovrano salisse al trono abbisognava della legittimazione del clero di Inanna/Ishtar (Venere, appunto): le cerimonie della regalità avvennero sempre per suo tramite, poiché soltanto dalla “signora degli dei” poteva discendere il diritto divino a prendersi cura degli uomini.
Prendersi cura degli uomini: solitamente, non riflettiamo molto su questo punto; troviamo noiosi i passi in cui Kremmerz o altri autori ci parlano della sofferenza dell’umanità, la terapeutica tende a diventare arida e, lentamente, scivoliamo di nuovo nelle abitudini del piccolo io: il giudizio, l’avversione, l’attaccamento, l’ignoranza, fino a non provare nemmeno più il desiderio di conoscere.
Perché ci accade questo? Perché abbiamo perso di vista l’ideale per cui ci muoviamo, o forse non l’abbiamo ancora trovato: se il nostro desiderio di conoscenza, all’inizio di un percorso, è volto esclusivamente al nostro risveglio, non avanzeremo molto. Per quanto si tratti di un desiderio elevato, è pur sempre un desiderio egoistico e, quando le prove si fanno aspre, questo desiderio tende a cedere e ad abbandonarci nella solita spirale discendente. Non possiamo andare oltre noi stessi finché, anche nei pensieri elevati, pensiamo solo a noi stessi: è naturale.
Non ci soffermiamo, invece, abbastanza a lungo a pensare che, se noi oggi possiamo seguire un sentiero, è perché gli iniziati del passato, coloro che hanno realizzato in sé la Mente ermetica, non hanno pensato solo a se stessi: ogni loro conquista sul sentiero è stata lasciata per iscritto o è stata tramandata oralmente, con pazienza, prendendosi cura di chi viveva ancora nell’ignoranza.
Prima ancora che noi nascessimo, qualcuno aveva pensato a noi.
E se nostra madre, l’amore più grande che conosciamo, ci ama per istinto, chi ha percorso un sentiero ed è morto per esso non ha pensato a noi per istinto né per dovere, ma per scelta. Se in noi nascesse almeno il desiderio di ricambiare questa generosità, saremmo già sulla buona strada per generare l’intelligenza del cuore.
Questo è il significato profondo del mito di Enki/Eà: Eà era un immortale, non aveva nessun dovere di salvare l’umanità dal diluvio, non ne traeva alcun beneficio per sé.
Ma guardando allo stato dell’umanità, creata per servire gli dèi, e guardando alle ulteriori sofferenze a cui gli esseri umani venivano sottoposti per un motivo futile (e cioè che “facevano rumore”), Enki NON POTEVA rimanere inerte e si dichiarò amico degli uomini, lottando per loro.
Ebbene, Enki/Eà, contravvenendo a quanto deciso dall’assemblea degli Annunaku, preservò la razza umana dalla sua distruzione insegnando le arti magiche e la saggezza, che avrebbero permesso di placare le calamità inviate da Enlil; da ultimo, Enki salvò Atrahasis dal diluvio universale, ultimo flagello inviato dal dio del cielo, facendogli costruire una barca e indicandogli di dirigersi verso le terre ove Enki/Eà era signore.
Eà, dunque, principio intelligente e agente come causa, è ancor oggi simbolo del pensiero libero, del portatore di civiltà e saggezza tra gli uomini, che pur rimanendo all’interno della Legge, sa prevedere gli eventi e, se vuole, scongiurarli: questo non perché abbia poteri trascendenti, ma perché la chiara visione, libera dai pensieri ossessivi del piccolo io, genera l’intuizione e questa, a sua volta, genera la convinzione dell’agire, una forza creativa dal potere invincibile.
Nel poema, vediamo che Enki non interviene in prima persona a impedire le catastrofi naturali, né insegna agli uomini dei prodigi per evitarli sic et simpliciter: il suo insegnamento è, invece, il consiglio che porta gli esseri umani alla saggezza necessaria a comprendere la Legge per cui una catastrofe avviene, e il giusto modo per riportare l’equilibrio tramite la Scienza.
Enki non salva gli uomini, fa ben di più: fa in modo che essi imparino a salvarsi da soli e a trovare “innumerevoli adattamenti” della saggezza, in ogni campo della vita.
Di qui comprendiamo che, da sempre, l’Arte non si propone di sovvertire l’ordine delle cose o di ottenere altri oggetti di attaccamento: è piuttosto la scienza del delicato equilibrio universale.
E proprio la conoscenza delle cause e degli effetti, che deriva dalla visione libera, costituisce il legame tra Enki/Eà e i suoi alleati: questa caratteristica del nostro Hermes – figlio di Dio e figlio dell’Uomo – è tutt’ora investigata dalla scienza ermetica moderna; si ricorderà, infatti, che negli “aforismi” Kremmerz cita esplicitamente proprio gli insegnamenti che Eà impartisce all’uomo per salvarsi dal Diluvio, rinvenendo nell’alleanza tra il dio e gli uomini il fondamento della Tradizione e della possibilità, per l’uomo, di andare oltre se stesso.
È da un atto d’amore che può nascere la Scienza, allo stesso modo in cui nasce un bambino.
Perché la saggezza nasce dall’amore? Perché l’amore, inteso come noi lo intendiamo (cioè un amore che non si basa su qualità personali dell’amato ma che nasce dalla visione della sofferenza e dal desiderio di liberare non solo se stessi) vince l’attaccamento e rende la mente libera e pulita: o, meglio, vince l’egoismo che ci ostacola: se amassimo come ama una madre, se comprendessimo che anche gli altri, esattamente come noi, agiscono per ignoranza e sofferenza, nulla di ciò che “ci fanno” potrebbe toccarci; se comprendessimo che la felicità che cerchiamo non deriva dagli oggetti o dalle persone a cui ci attacchiamo, saremmo liberi dal possesso e accetteremmo la distruzione di ciò che abbiamo amato allo stesso modo in cui accettiamo che le foglie cadano in autunno.
Quando questo rumore interiore è vinto, il silenzio fa emergere un’altra mente, immensa e quieta, la Mente ermetica.
Questa mente, o Hermes, può essere percepita soltanto nel silenzio, soltanto quando ogni altra cosa tace. Finché ci concentriamo sui nostri bisogni, Hermes non sorge, perché siamo troppo impegnati a rincorrere oggetti e desideri che non ci soddisferanno mai, perché non saranno mai abbastanza: quante persone ascendono ai luoghi più alti dell’esistenza umana, in politica o su un seggio di magistratura, nelle grandi multinazionali, e nonostante abbiano “tutto ciò che si può desiderare” non riescono ad essere soddisfatte?
Questo perché la felicità non può dipendere dagli oggetti: è, invece, una condizione ontologica dell’essere. Nei rari momenti di felicità autentica della nostra vita, noi abbiamo sperimentato una spontanea gratitudine per le piccole cose: forse, a ben guardare, non eravamo grati per il paesaggio mozzafiato che stavamo contemplando, ma perché ci avevamo fatto caso e i nostri occhi si erano accorti che era lì.
Finalmente, potevamo vedere. E da questo è derivata la nostra autentica felicità.
Forse, pur non avendo alcun dovere nei confronti dell’umanità, Enki/Eà pensò che questa saggezza potesse alleviare le sue pene e rendere libera la sua mente da ciò che genera dolore.
Scelse, quindi, di dare l’esempio, di agire e lottare per gli uomini e ne scelse uno, il più saggio tra loro, affinché a sua volta si dedicasse alla Via.
E a sua volta, Athrahasis, rapito da questa visione, salvò gli esseri dal diluvio con la costruzione della sua imbarcazione, senza chiedere aiuto a nessuno per questo compito, se non che chiunque potesse essere trasportato salisse sulla barca: non solo se stesso, quindi.
Lo stesso nome di Enki ed Eà racchiude un grande mistero: il primo è chiamato “signore di Ab” (lett.: signore dell’acqua), eppure “Ab” significa tanto “acqua” quanto “sperma”, rinviando così al concetto di generazione attiva, di moltiplicazione, di fecondazione; non si tratta, quindi, di un richiamo all’acqua quale elemento generatore e passivo, bensì di qualcosa che “agisce sull’acqua” e ne è signore (En-Ki significa, letteralmente, “signore della terra”).
L’acqua, come sappiamo dai testi ermetici, è il corpo lunare, a simboleggiare che nel mito di Enki/Eà è racchiuso il segreto per dominare le acque impetuose del corpo lunare e renderlo un quieto specchio per la luce del sole. Una volta che il lunare sia diventato un mare placido, e non più un’acqua torbida e agitata, Hermes (che potremmo paragonare all’immagine del sole che si specchia nell’acqua) sorge.
Il nome Eà – akkadico –, dal canto suo, significa sempre “casa dell’acqua”: e, in effetti, le antiche cosmogonie sono inequivoche nel ritenere che il creato sia nato dalla concezione attiva, fecondatrice, che il Pensiero ebbe del mondo, il quale giaceva inerte e potenziale nell’oceano primordiale in cui ogni cosa esisteva.
Entrambi gli dèi richiamano, quindi, il concetto di inseminazione del mediatore plastico per mezzo del Pensiero puro, che gli dà forma e, dunque, concepisce idealmente e manifesta ciò che prima giaceva in potenza.
L’apparizione di questo Pensiero puro, o Mente ermetica, che sorge lentamente attraverso la purificazione e il coltivare l’intelligenza del cuore, apre quindi il secondo stadio del sentiero: un giorno saremo consapevoli che è stata proprio questa Mente, fin dall’inizio della nostra Via, ad avanzare con quieta volontà e grande perseveranza attraverso le prove, perché è proprio questa calma, questa neutralità profonda, ad avere il potere di placare ogni elemento disturbante, comprendendo che le avversità non esistono: è la nostra visione inquieta a percepirle.
Liberi dall’attaccamento, neutrali e calmi, potremo finalmente conoscere l’Essere, poco alla volta, e scoprirne le virtù e i poteri: scopriremo, specialmente, quando questo Essere si manifesterà e guarderà all’interno di noi per scovare il vecchio “io”, terrorizzato dal perdere ciò a cui si attaccava, che questo “io” è puramente convenzionale. Non esiste. Pervasi dalla Mente ermetica, è soltanto lei che sentiamo, come un quieto, consapevole buio che riempie la mente, le ossa, ogni cosa in noi. Il vecchio io è scomparso e noi, come coloro che hanno trionfato sul drago, ci rallegriamo vedendo quello che fu chiamato “il Grande Nero” e sperimentando la libertà.
È rincuorante, a mio avviso, vedere come la Via che ancor oggi seguiamo non si basa su umane fantasie degli ultimi secoli: fin dai primi testi scritti di cui siamo a conoscenza, l’uomo ha la facoltà di non essere semplicemente un uomo, e questa facoltà gli è stata data da un dio che ha scelto di non pensare solo a se stesso e di essergli amico. Tra la razza umana e gli dèi della saggezza esiste, infatti, un’alleanza che soltanto posteriormente viene maledetta dai culti religiosi: solo in epoca tarda i portatori di civiltà (Atlante, Prometeo, Semyaza) sono visti come eroi o angeli caduti, maledetti dal dio del cielo – il sumerico Enlil – e precipitati nell’abisso per l’eternità; originariamente, al contrario, troviamo non degli eroi o degli angeli caduti, ma degli dèi a portare la conoscenza agli esseri umani: tra questi rammentiamo Thot (che tramite un inganno ottiene i cinque giorni epagomeni, in cui avvenne la creazione degli dèi minori e, poi, della stessa razza umana), Enki/Eà e il civilizzatore di tutta la terra, Anzty/Ausar.
Oggi, quegli stessi dèi possiamo vederli anche come gli iniziati di ogni tempo, i discendenti di Athrahasis che hanno tramandato quell’antica saggezza.
Tutto ciò richiama alla mente anche riflessioni ben più ampie, su quella “particella primordiale” citata da Lehahiah nel “Memoriale 48”: essa simboleggia il “genio portatore di moto” (cioè il pensiero libero dall’attaccamento che sovvertì l’ordine delle cose fra dèi e uomini), il quale, a una più attenta analisi, non è al di fuori della Legge né la contravviene; al contrario, è diretta espressione della Legge in quanto impedisce la stasi (il sonno di Enlil) e porta il mondo a un nuovo ciclo evolutivo.
La profonda conoscenza del consiglio di Hermes, quindi, porta l’uomo stesso a divenire partecipe della creazione, che avviene portando in manifestazione ciò che si comprende e si realizza; di per sé, Hermes simboleggia quindi un varco tra il mondo degli effetti e il mondo delle cause: una potenzialità di ascendere e discendere che implica ben più vaste applicazioni, potendo culminare nella fissazione di certe virtù archetipali in un’individualità – che gli alchimisti definiscono “pietra”, ma che dicono anche vada nutrita… ed in effetti è mera materia, suscettibile di essere plasmata e divenire una scultura – che trascende il piano umano e dimora in se stessa, ma che fa pur sempre parte del Filosofo, il quale è la Casa della Mente.
E di qui possiamo comprendere perché gli Egizi chiamavano venere “Hat-Hor” (casa di Horus).
Su questo punto mi riservo di tornare, in separato scritto, che ancora non so se vedrà la pubblicazione: forse ho già detto quanto c’era da dire, specialmente là dove si crede che non abbia detto nulla.
Iehuiah