Note di Magia Pratica
Quando per la prima volta sentii la parola “genio”, seguita da “invocazione”, non sapevo cosa aspettarmi. Pensavo già ad apparizioni, presenze, a qualcosa di tangibile o percepibile coi cinque sensi. Ma non accadde nulla di tutto questo, e mi parve che non fosse successo nulla. Col passare del tempo, con l’evolversi della pratica, capii: qualcosa era successo, ma siccome non era quello che mi aspettavo non l’avevo percepito. La magia è così: non è mai quello che ti aspetti e allo stesso tempo è infinitamente di più di quello che ti aspetti.
Occorre qui una digressione sul concetto di magia, o meglio, su come intende questo termine chi scrive, dato che oggi ognuno ha una sua idea di tale termine, più o meno astratta, più o meno fiabesca. Tenterò quindi di dare una definizione a maglie larghe, secondo una concezione ermetica.
Elifas Levi ebbe a dire: “Il mago usa una forza che conosce, lo stregone abusa di ciò che ignora”. Da questo concetto potremmo subito chiarire che “magia” è intesa come esperienza di una forza sottile, la quale dalla potenza passa all’atto. Gli egizi usavano per magia il termine “he-ka” (attivazione del ka), spesso associato sia agli incantesimi che a un più astratto concetto di potenza divina, cioè l’onniscienza (Sia). È detto di He-ka, nel suo aspetto personificato di Neter, che egli è preesistente alla manifestazione della dualità. Magia, quindi, come potere di manifestazione, un potere evidentemente demiurgico e non di creazione ex nihilo (ex nihilo nihil fit, cioè nulla viene dal nulla: “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma” è anche la prima legge della termodinamica riassunta da Lavoisier). Ma chiariremo questo concetto nel corso della trattazione, che appunto verte su questo problema.
Si diceva che spesso le aspettative impediscono di percepire ciò che in effetti accade durante una pratica “magica”, e in effetti così è anche per i mutamenti che avvengono nell’individuo che percorra una via spirituale: spesso questi non si percepiscono in modo diretto e solo voltandosi a guardare il passato ci si accorge che è intervenuta una trasformazione; oppure perché sembra di percepire tutto ciò che esiste in modo differente, quindi sembra che sia il mondo a cambiare, e non l’individuo (illusione ottica che si sperimenta anche quando parte un treno e sembra che sia la stazione a muoversi). Questo dovrebbe far riflettere sull’estrema naturalezza del mutamento dovuto a un lavoro spirituale, per sfatare così i falsi miti derivanti – magari in buona fede – dall’entusiasmo di esperienze particolari, le quali portano a credere di aver raggiunto in un giorno chissà quali vette.
I mutamenti, le trasmutazioni, avvengono in occulto, in una zona sottile che è sottratta alla visione abituata a percepire la materia. Eppure sappiamo che nulla cresce che non sia stato prima seminato, quindi dove sta l’inghippo? L’inghippo sta nell’ordinario apparato percettivo di cui l’uomo si serve per vivere la vita quotidiana. Banalmente: l’educazione e i cinque sensi. Hahasiah ebbe a dire, in un suo scritto (Il percorso della mente) che il bambino appena nato ha una percezione del mondo la quale, nel corso del tempo, viene razionalizzata dall’insegnamento di genitori e maestri di scuola: gli viene spiegato il perché, il come e il quando delle cose secondo un paradigma tipico del suo contesto temporale e spaziale. In poche parole, l’educazione mira a inserirlo nel mondo sociale. Ma, si badi, un contesto sociale che non è assoluto ma è relativo, sia dal punto di vista geografico che temporale (vale a dire: se la stessa persona fosse nata in tempo e luogo diversi, le spiegazioni che avrebbe ricevuto sul mondo sarebbero state differenti). Il bambino, aggiungo io, nel corso del tempo imparerà ad adeguare la sua stessa percezione a ciò che gli è stato insegnato ad intendere come reale. Credete che sia assurdo? Chi è nato e cresciuto in un contesto in cui si crede agli spiriti dei morti e degli antenati, ad esempio, non avrà alcuna difficoltà a percepirne le presenze e ad arrivare anche a vederli, cosa che chi non reputa questi stessi esseri “reali” non riuscirà a fare, a meno che non si converta ad una nuova visione del mondo e delle forze che lo abitano. Allo stesso modo noi percepiamo con gli occhi qualcosa che, scientificamente, sappiamo essere messo in discussione: la solidità della materia. Sappiamo invece che all’interno dell’atomo vi sono spazi infiniti tra il nucleo e la nuvola elettronica e che, quindi, la materia non è affatto solida come la nostra percezione vorrebbe.
Comprendere la magia è quindi una questione che non attiene alla sfera del conosciuto: potremmo dire che è una questione di percezione. E così come il cervello governa gli impulsi che ci vengono dai cinque sensi, e li riorganizza in un insieme che fonda la nostra visione del reale, allo stesso modo un Intelletto sottile (diverso dall’arguzia e dalla logica) governa la sfera della percezione ultrasensibile. Questo Intelletto sottilissimo è chiamato dalla scienza ermetica Hermes o mente ermetica.
Chi ha qualche nozione di esoterismo generale avrà certo sentito parlare del concetto di purificazione come primo gradino dell’iniziatura magica, e a questo proposito è bene fare una precisazione: la purificazione magica non è un concetto morale. Non c’è niente di peccaminoso nell’essere umano e la purificazione dell’essere si basa, più che altro, sul raffinare la materia umana per permetterle di percepire altro da “sé”. In questo senso è da intendersi la lotta all’ego: le emozioni non sono “maligne”, i pensieri non sono “peccaminosi”, l’uomo non deve “pentirsi” di nulla. L’uomo deve, semplicemente, spogliarsi di ciò che è inutile. Ad esempio, un’eccessiva attenzione verso se stesso gli impedisce di vedere al di là del suo naso; un’abitudine alla paranoia gli impedisce di saper fermare il flusso dei pensieri e raggiungere il silenzio interiore; l’eccessivo attaccamento a qualcosa (che può essere la lussuria ma anche, attenzione!, l’ossessione per le opere di carità ha lo stesso, identico effetto) gli impedisce di essere libero.
A questo punto ci si chiederà: che cos’è la libertà? E si potrebbe rispondere che la libertà è conseguenza del non attaccamento, nel senso che quando un uomo non è dipendente da nulla è libero di volere e di non volere, di prendere o di non prendere, senza – in entrambi i casi – subire alcun senso di perdita.
Questo stato di libertà, lungi dall’essere conquistato in due giorni o in un lustro, è la prima meta che ci si dovrebbe prefiggere. Gli ermetisti lo chiamarono “stato di mobilità”, gli alchimisti definirono questa fase come “rendere fisso il volatile e volatile il fisso” oppure “uccidere il vivo e vivificare il morto”… ma perché lo dissero? Sarebbe bene riflettere su un concetto che fa parte del nostro retroterra culturale: il sacrificio. Nella nostra educazione religiosa per compiacere Dio dobbiamo sacrificare noi stessi, diventare “bravi cristiani”, e come premio avremo, dopo la morte, il Paradiso. Nella concezione magica del mondo la lotta all’ego non è invece intesa come un sacrificio rituale, un olocausto di sé a una divinità, per avere un premio dopo la morte. Si parte invece dal presupposto, di cui abbiamo testimonianza da chi ha praticato e pare che l’abbia fatto a buon fine (cioè che abbia realizzato qualcosa), che togliendo lo sporco dalla finestra si riesca a un certo punto a vedere il paesaggio che sta fuori. O, se vogliamo dirlo con termini un po’ più tecnici, che la morte delle sovrastrutture sveli l’Uomo antico. Questo sembra non abbia alcuna implicazione, eppure chi pratica da qualche tempo sa che si sperimenta facilmente: ogni volta che viene tolto un velo non si rimane a mani vuote, ma si ha semplicemente qualcos’altro per le mani. Nessun “Paradiso” dopo la morte, quindi, nessun compiacimento di una divinità esterna all’uomo, ma cambiamenti pratici a fini pratici. Soltanto dopo aver sperimentato lo stato di mobilità, infatti, si potrà fare della metafisica: prima di quel momento si tratterebbe di semplice filosofia.
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Una volta che l’uomo abbia suscitato in sé un certo grado di libertà e di mobilità, entriamo in pieno campo magico. Chi legge saprà che piccoli spiragli di libertà aprono le porte alla percezione dello Spirito Universale tramite bagliori di intuizione e partecipazione alla Vita. Tutto ciò avviene nel silenzio dell’apparato percettivo comune, quindi ecco il senso della purificazione e del silenzio interiore come allenamento alla percezione sottile.
Questo Spirito Universale fu chiamato anche Quintessenza. Elifas Levi lo chiamò propriamente “Grande Agente Magico”: “Grande”, perché è ovunque nel macrocosmo; “Agente” perché non solo esiste ed è in movimento, ma agisce, cioè produce effetti e modificazioni, e aggrega le particelle elementari in nuove forme; “Magico”, perché opera nel campo del grande magnetismo universale e per mezzo di esso.
Questo Spirito Universale è al contempo Legge e Intelligenza e, come tutto ciò che vive, è un Essere. La pratica magica e alchemica, in sé e per sé, non è che un’applicazione della Legge con l’ausilio dell’Intelligenza, o Mercurio essenziale, che è appunto l’ingrediente segreto dell’Opera, senza il quale nulla si risveglia. Osservando la natura ci si avvede immediatamente del suo effetto piacevole e riequilibrante sull’umore e la salute, in quanto essa è diretta manifestazione fisica della Legge. Quando questa Legge viene analogicamente applicata sull’essere umano, le consuetudini sociali iniziano a sembrare un’assurdità: mettersi in simpatia con la natura produce una certa estraneità al fanatismo umano per le sue stesse creazioni, mentre sempre più si entra nella grande corrente sottile che permea ogni cosa e che lentamente compenetra le cellule dell’organismo umano.
Isolando infatti la sensazione che emerge nel silenzio interiore e separandola da tutto ciò che la lega al conosciuto (non solo dalle passioni, ma anche dall’idea di sé) si giunge infine a una particella elementare. Questa monade, o particella di luce (come la chiamò Raimondo di Sangro), è presente in ogni cosa. La sua natura è quella di un fuoco elementare e animatore, ed esso è il vero nutrimento dell’Essere, che “vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida”, facendo “il miracolo di una Cosa Unica”.
Lord Byron scrisse: “Si prova piacere nei boschi senza sentieri/ Si vive un’estasi sulla riva deserta/ Si trovano compagni, là ove nessuno s’intromette,/ presso il mare profondo, e una musica nel suo fragore./ Non amo di meno l’uomo, ma di più la Natura/ a causa di questi nostri colloqui nei quali io rubo/ Da tutto ciò che potrei essere, o sia mai stato prima,/ Per fondermi nell’Universo e sentire/ Ciò che non posso mai esprimere e tuttavia non so celare.”
Come non riconoscere in queste righe l’ineffabile spirito della natura cui tendiamo?
Prima è stato scritto che nell’Opera si applica analogicamente la Legge sull’uomo, ma ciò non significa comprenderla: la comprensione nasce dall’esperienza della legge stessa attraverso l’osservazione partecipe della natura, nel momento in cui l’operatore e la natura sono una sola cosa. Nel momento in cui il risveglio dell’essere occulto avviene almeno in embrione, infatti, l’Intelligenza sposa la Natura, intesa non come manifestazione sensibile ma come organismo vivente invisibile. È a questo organismo che si accede e dalla sua sostanza che si viene compenetrati, quando si vede al di là del proprio naso: “organismo”, piuttosto che “mondo”, perché come l’organismo umano è ordinato secondo un’intelligenza funzionale e naturale e come l’organismo umano è apparato di un Essere vivente e intelligente.
Il silenzio interiore allora alza il sipario su una realtà che è divenuta percepibile, seppure la percezione sia graduale (anche qui, infatti, la raffinazione della materia continua, né c’è un limite al suo splendore). Eppure tutto questo non basta, c’è anche dell’altro: se l’uomo si fermasse qui sarebbe simile a un’enorme mente senza un braccio, un semidio finché è seduto in poltrona a occhi chiusi e un uomo comune quando si alza e vive la sua vita. Proviamo a capire: durante un’azione rituale l’operatore impara gradualmente ad agire in un diverso stato d’animo e a compiere i suoi gesti con coscienza (o per lo meno, all’inizio, con un’attenzione inusuale). Questa stessa qualità di vita, in cui ogni azione diviene un rito, può estendersi fino a permeare l’intera esistenza: questo coagula e salda insieme l’intera essenza dell’uomo con quella del suo Nume.
Eppure queste nozze non possono avvenire senza l’ausilio del “lavaggio col fuoco”.
Non c’è niente, a ben vedere, che non sia già presente in potenza nell’uomo e nel mondo: nulla si crea e nulla si distrugge; tutto si trasforma. Una Legge vive in ogni cosa. Uno stesso Essere permea l’Universo e ogni forma di vita visibile. Come chiamare altrimenti l’Intelligenza della Legge che di un seme fa un albero, di un seme fa un uomo, di un seme fa un Dio?
Gli Autori più umili e sinceri dissero sempre: nemmeno il più astuto Operatore sa perché il piombo sia diventato oro, eppure è accaduto. Come a dire: più facile è applicare la Legge che comprenderla.
Per questo la pratica iniziale non è che un corso di formazione professionale per futuri aspiranti a qualcosa di più. Qualcosa di reale.
Una volta applicata correttamente la “ricetta degli antenati” (che comprende non solo le pratiche, ma specialmente le istruzioni esclusivamente riservate a chi sappia intendere il “non-detto”), lo stupore di constatarne la verità e l’efficienza supera qualsiasi aspettativa: chi credeva che “nero” fosse un modo di dire; chi credeva che “gli indegni saranno colti dalla pazzia” fosse un monito esagerato; chi stentava a credere che un semplice procedimento causasse così forti trasformazioni nell’essere, diverrà testimone della verità delle parole dei Filosofi: la Legge esiste ed è un Essere.
Molti, colti dalla meraviglia e dallo stupore, si credono a questo punto arrivati, mentre il vero e duro lavoro deve ancora iniziare: si sono solamente compresi i Princìpi e si è passivamente constatata la fruttuosità della loro applicazione.
Dunque, il problema sembrava risolto, ma non lo è affatto: si è compreso che un lunare purificato ha potestà e virtù, ma soltanto quando il suo Re lo comanda… e questo Re non si sa ancora chi sia: si sa soltanto che in assenza di variabili esterne la Legge applicata produce trasmutazioni e che dall’equilibrio indotto nel quaternario si sprigiona la Quintessenza che dà vita all’idea voluta.
Lo stato d’essere trovato nel corso degli anni di pratica è come l’occhio del ciclone, come un magnete saldo in se stesso: solo questo può compiere la trasformazione. L’estrema durezza non impedisce però a questo embrione di avere una certa mobilità:l’embrione ha infatti entrambe le proprietà delle due nature opposte. Non è razionalità, non è autocontrollo, è un efflato sottile ma concreto, il quale troverà nella forza contraria la resistenza per temprarsi in una ginnastica potentissima. Le due forze contrarie, efflato e potenza (aquila e serpente, leone e grifone, la madre che divora il figlio e il figlio che uccide la madre), dapprima si combattono, finché entrambe scompaiono e si divorano vicendevolmente. In questi quaranta giorni di tempesta il corvo sarà mandato sulle acque e non tornerà più. La colomba che sarà mandata tornerà indietro col ramoscello nel becco.
Negli Aforismi, Kremmerz scrive: “Educate voi stesso a pescare nel mare ignoto del vostro spirito il soffio che deve compiere la trasformazione.”
Questo magnetismo integrale, però, ha necessità di esser lavorato e consolidato. Lentamente l’aspirante procede (festina lente!, dissero sempre gli Autori), senza far rumore, scivolando sull’acqua senza incresparne le onde.
Dagli effluvi del suo corpo, in volute di vapore, si eleva il corpo lunare: tormento e passione per l’uomo comune, e rabbia e dolore e rapimento dei sensi. Violento turbine che fa perdere la lucidità: questo esso è, e non sarà mai altro, per il volgare che gli si abbandoni.
“Volete fare di quest’uomo un iniziato all’Amore? È lavare la testa all’asino!” (G. Kremmerz, Gli amanti).
Ma per l’uomo purificato, per colui che si eleva dal veleno e vuol far di questa forza un sublime farmaco, il canto della sirena Astarte, il canto della Luna, non è più udibile in questo senso.
Un altro, più sottile sentire avvolge il suo essere, nudo e fatto di se stesso: questa forza più grande, come un vento leggero e sottilissimo, ineffabile e placido, inconoscibile eppure presente, sublima il vapore acqueo della Luna per fare della voluttà della prostituta l’estasi di una santa. Questo nuovo essere nasce da un uovo, non ha cioè cordone ombelicale che lo leghi al mondo dei suoi antenati: nasce dall’unione del Mercurio col suo Zolfo, così come avviene nelle profondità della terra. Questi due sposi si uniscono formando un legame così stretto e indissolubile che, una volta maritati insieme, è impossibile dividerli. L’uno non esiste più senza l’altro, come ebbe a dire la Grande Iside: “Io senza Lui non esisto, Lui senza Me non è manifesto”.
Quanti ebbero a cantare della sublimità e innocenza della Vergine Immacolata, della casta Artemide e delle colombe di Diana, avevano in mente le ali di questo bianco uccello in cui l’acqua si converte, sublimandosi, e vola alle idee.
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È in questa fase delicatissima, se l’aspirante giunge alla soglia dell’invisibile e quindi ha inteso bene e praticato bene, che inizia il pericolo forse più grande per chi intraprenda una Via: si apre davanti ai suoi occhi una visione la cui natura è ignota. Essa vive a fianco dell’uomo, e negli spazi di confine essi si compenetrano, imparando a conoscersi, a percepirsi, come due segreti innamorati condannati al silenzio di lingue diverse. La sublime vicinanza di quella palpabile nobiltà induce presto all’entusiasmo, all’immaginazione, all’ispirazione… l’immagine si ingigantisce per diventare ciò che essa non era mai stata, condita di umana fantasia: così chi abbia fretta di comprendere o di costruire cade nel tranello di credere che un’idea vada presto manifestata, che tutti dovrebbero conoscerla, che sia nostra missione portarla nel mondo: quanti aborti sono nati con questa fretta!
Ma l’idea è un Essere, prima che un progetto, e l’individuo può soltanto farsi pervadere da essa, più che “darle corpo” nel mondo visibile: non è nel mondo fenomenico che essa deve prendere vita, ma nell’individuo stesso, fondendo la sua sostanza con l’uomo che le è affine e che offre se stesso per servirla, facendole spazio dentro di sé.
È qui che l’aspirante deve imparare, realmente, a tacere e lavorare nell’occulto del suo laboratorio.
Nessun rumore egli produce e ciò che prima era fuoco distruttore, che ogni cosa consuma in un attimo, diviene piccola fiamma di lume eterno che, come ebbe a dire Raimondo di Sangro, brucia su uno stoppino d’oro purissimo ed è inestinguibile se non viene turbato da improvvisi movimenti impressi dall’esterno.
Conoscere il giusto regime di questo lume, non ubriacarlo di violenza, produce nel ricercatore uno stato perenne di presenza e beatitudine, che nulla ha a che vedere con ciò che egli conosceva. Alcuni lo chiamarono “stato di mag” o “stato perenne di polluzione creativa”. È allora che egli inizia a parlare col mondo intorno a sé e il mondo risponde, rapito: ogni proiezione, allora, avviene di conseguenza a un moto impresso nella plasticità del lunare, vero utero e vero veicolo che, mutandosi in colomba, ascende placido, liberato dalle catene della voluttà.
Ciò a cui i suoi sforzi tendono è riordinare demiurgicamente, attorno al nucleo della Quintessenza (Magnete), i Princìpi in uno “Jeova realizzante”, vivente nella Luce.
Cos’è questa Luce?
Non appena si schiude la percezione, non appena il capo dell’uomo mette fuori le ali, si rende evidente un eterno moto di particelle di fuoco elementare presenti ovunque in natura. Questo fuoco elementare, cioè purissimo, è il nutrimento, la “colla”, per il proprio essere.
Esso infatti lega insieme ogni cosa vivente, manifesta o immanifesta. Come tale è l’unico tipo di fuoco che fonde insieme metalli con temperature di fusione incompatibili fra loro, senza bisogno di un altoforno, facendone una Cosa Unica.
Non c’è più distinzione, allora, tra Spirito e materia, tra causa ed effetto, perché è venuto alla luce l’Essere-Sintesi: come il fuoco segreto ha purificato i promessi Sposi, così nel fuoco elementare essi sono una sola cosa.
Hahajah commenta così questa proposizione:
“Come tutte le cose sono sempre state e venute da UNO così tutte le cose sono nate per adattamento di questa COSA UNICA.”
“Abbiamo già chiarito, grosso modo, cosa sia questo UNO, o COSA UNICA, o HERMES, e cioè:
a) un essere umano e divino
b) tutto fuso nel proprio crogiuolo
c) sciolto nella natura essenziale del ternario
d) Uno con se stesso per l'avvenuto miracolo di "una sola cosa".
Miracolo, da mirare cioè fissare e perciò stabilmente integrato, immortale ed eterno, espressione purissima della volontà-intelligenza divina, in esercizio perpetuo e polluente di creazione.”
Dalla potenza, quindi, siamo infine giunti all’atto, secondo l’antica concezione di magia che fu ben più rispetto alla concezione odierna di pratica saltuaria per fini volgari: essa fu la Scienza dei Magi.
Myria