La tradizione egizia

Introduzione: dalla leggenda alla storia

Riflessi nel manto scuro: splendenti costellazioni, diamanti nel cielo visibile.
All’inizio dei tempi, la prima notte calò sullo sguardo del primo uomo ed egli, incantato, sentì la presenza immortale del firmamento. Di epoca in epoca, storie e miti furono tessuti nei cieli eterni, muti testimoni della storia umana. Bisbigliavano tra loro le tribù primitive, osservando le forme silenziose che le stelle tessevano dinnanzi ai loro sguardi… un cacciatore, un serpente, i fratelli in guerra tra loro, la regina, ricami immortali che ispirarono l’immaginazione e la scrittura.
Davanti al fuoco celeste pare di udire i loro bisbigli colmi di meraviglia. Sorrido dell’incanto eterno dell’uomo… in ogni epoca, sguardi rapiti dallo stesso cielo. Il cuore pulsante della famiglia umana ha preso dimora nelle stelle remote, che ha così amato da farne la casa degli Dei e dei re.
È difficile immaginare come iniziò tutto… come l’uomo, inimmaginabili anni fa, da una vita selvaggia passò a conoscere il fuoco, a osservare il cielo sopra di lui, a notare il ritmo delle stagioni. Possiamo soltanto ipotizzare, con l’aiuto di una forte empatia, la meraviglia e lo spavento che il miracolo naturale poteva destare allora nella razza umana, mentre ignoriamo completamente come la Tradizione nacque e si perpetuò nei millenni sconosciuti alla storia ufficiale. 
L’inizio è sempre avvolto dal velo del mito: tramandano i testi sacri che un precursore leggendario dei nostri Eroi – lo si chiami Osiride, Prometeo, Lucifero o Azazel – portò il fuoco agli esseri umani e insegnò loro a coltivare la terra. La Genesi racconta che gli angeli caduti si unirono alle figlie degli uomini e insegnarono loro gli incanti, le arti magiche, il modo di raccogliere le radici e di distinguere le piante, ed esse furono le progenitrici dei Nephillim, i giganti. Nel libro di Enoch troviamo Azazel e i suoi compagni impegnati nel medesimo compito, e anche la Tradizione egizia tramanda la civilizzazione della terra, compiuta ad opera di Osiride con l’aiuto di Iside.
La terra d’Egitto in cui stiamo per addentrarci fu strappata alle acque, raccontano i greci, molto tempo prima dell’insediamento della popolazione egizia, essendo precedentemente quasi interamente sommersa. Ecco il mistero dell’argilla cristallina che Hatshepsut, la grande Regina, impiegò per il suo santuario: essa si estraeva dalle cave vicine alla foresta pietrificata della Montagna Rossa. Al di sotto di questo strato, testimone delle foreste antiche che ricoprivano Khme (“Terra nera”, cioè fertile), molluschi marini e conchiglie ricordano il tempo in cui l’Egitto era un mare. Testimonianze della leggenda dell’Egitto come terra emersa dalle acque le troviamo in Plutarco e in Erodoto:

L’Egitto, in effetti, una volta era un mare. Ecco perché nelle miniere e nelle montagne si trovano ancora oggi così tante piccole conchiglie. Tutte le sorgenti e i pozzi, e ve ne sono molti, contengono un’acqua salata e amara, come un residuo corrotto del mare che scorreva un tempo in questi luoghi. Ma Horus col tempo trionfò su Tifone. Ciò significa che, essendo sopravvenuta una felice abbondanza di piogge, il Nilo respinse il mare, scoprì la pianura e la colmò di alluvioni. [Plutarco, De Isis et Osiris, pag. 40]

Ciò che gli Egiziani affermano sulla configurazione del loro paese mi sembra giusto. In effetti, risulta evidente a chiunque abbia spirito di osservazione[…] che la parte d’Egitto in cui sono approdati i Greci (il Delta)è un terreno conquistato sulle acque oppure un dono del fiume e che anche quello che si estende al di là del lago (lago Meris), a tre giornate di navigazione, è terreno alluvionale. [Erodoto, II, 4-5]

In seguito, due diverse razze presero possesso delle terre emerse, stabilendosi a nord e a sud e dividendo il territorio in piccole circoscrizioni, chiamate hesep dagli Egizi e nomoi dai Greci. Questa divisione del regno perdurò durante tutto il periodo storico e permane simbolicamente nella corona del Faraone, unione della corona dell’Alto Egitto con quella del Basso Egitto. Si narra che, più avanti nel tempo, una terza razza giunse nelle terre emerse attraverso la Libia, dando inizio alla civiltà egizia così come la conosciamo. Quest’alba della civilizzazione fu denominata “i Tempi del Dio”, poiché si tramanda che uno dei regnanti fu Osiride. Nel papiro di Torino troviamo infatti un elenco di dinastie divine che precedettero il re Menes, che nella storiografia diede origine alla I dinastia.

Afferma Diodoro Siculo (I, 14): Per prima cosa il genere umano cessò di divorarsi a vicenda, nel momento in cui Iside  scoprì il frutto del frumento e dell’orzo che cresceva, come accadeva, nella regione insieme all’altra erba, ma che era sconosciuto agli uomini, avendo Osiride inventato anche la coltivazione di tutti i frutti, tutti volentieri cambiarono il nutrimento per il piacere della natura delle cose scoperte e perché sembrava opportuno astenersi dalla crudeltà gli uni verso gli altri.  Racconta invece Plutarco: “Dopo che Osiride divenne re, egli strappò immediatamente gli egiziani alla loro esistenza di privazioni e da bestie selvagge, fece loro conoscere i frutti della terra, donò loro delle leggi ed insegnò loro a rispettare gli dei. In seguito, percorse tutta la terra per civilizzarla.”
Questo leggendario capoclan predinastico appare, nei Testi delle Piramidi, col nome di Anzty, con l’appellativo di “comandante supremo dei suoi nòmi” (i nòmi erano piccole province autonome precedenti l’epoca dinastica.): egli, si dice, installò i nomadi sui territori, fondò la base dell’agricoltura e delle istituzioni. Ad Anzty, si narra, venne posteriormente assimilata la figura di Osiride come sovrano dell’Egitto, con l’unica differenza che non ci troviamo, in questo caso, di fronte a un angelo caduto, ma a un eroe divinizzato.
Questa leggendaria stirpe, avvolta dal mito di un’età dell’oro, civilizzò la terra: nella mitologia posteriore ritroviamo Prometeo che portò il fuoco agli uomini, Lucifero (“portatore di luce”) che compì la sua missione e scelse la sua orbita di stella ribelle, di cometa dalla coda infuocata, per civilizzare tutta la terra… ed essi furono puniti dagli Dei, o forse soltanto condannati dagli uomini.
Questo primo Eroe, si narra, elevò la razza umana.
Si narra poi che un uomo di grande sapienza fu prescelto dalla Natura come suo favorito: egli fu chiamato Thot dagli Egizi, Taut dai Fenici, Ermete Trismegisto dai Greci. Narrano i miti egizi che Thot fu l’inventore della scrittura, e posteriormente molto si ricamò sull’origine dei geroglifici, mentre ancora oggi la loro origine è sconosciuta. Si tramanda, in proposito, che la purezza delle idee fu inquinata dall’idolatria e dalla superstizione del volgo; Thot, perciò, inventò dei simboli che solo i saggi avrebbero potuto comprendere, mentre il popolo non avrebbe trovato altro che un oggetto d’ammirazione in quelle immagini simboliche.
È noto che non sempre i geroglifici esprimevano concetti di natura ieratica: tale linguaggio è riservato soltanto alle esposizioni sulla natura del Principio Primo e delle segrete operazioni di Natura. Con questo linguaggio simbolico, ancora oggi, i nostri egittologi si trovano a fare i conti.
Quale “purezza delle idee” la fitta rete di simboli sia atta a preservare è ancor oggi il mistero con cui bisogna confrontarsi quando ci si addentri nei libri egizi, altrimenti inintelligibili formulari e prontuari per l’aldilà.
Per questo motivo, prima di addentrarci in questo luogo polveroso e pregno di luce al tempo stesso, è necessario fermarci un attimo sulla soglia: non possiamo entrare in un luogo così lontano nel tempo con la mente dell’uomo di oggi.
Dobbiamo preliminarmente affrontare la questione del simbolo: che cosa sia, ad esempio, e come operi l’intuizione capace di cogliere la “purezza dell’idea” da esso velata.
Ci serviremo di Platone e del suo concetto di Noumeno, e s’invita il lettore interessato ad un breve approfondimento sul Mondo delle Idee, excursus troppo lungo per essere affrontato in questa sede.

 

Il simbolo come porta tra fenomeno e Noumeno

Guardando all’arte sacra dell’antico Egitto c’è chi continua, ancor oggi, ad affermare che questo popolo fosse dedito alla zoolatria, per via delle sembianze animali assunte da alcuni Neteru. Questa semplice considerazione, che vuol essere esemplificativa, è certamente una prova di quanto la mentalità umana sia ancorata alle credenze e alla sapienza tipica della propria epoca: ogni uomo porta con sé il background tipico della propria educazione morale e intellettuale; ogni uomo contestualizza tutto ciò di cui viene a conoscenza – che si tratti di nozioni antiche o moderne – all’interno della sua struttura mentale e della sua “verità”. Ciò che rimane oscuro, in questo processo (inconscio) di attualizzazione dell’antico, è ciò che gli antichi vollero effettivamente simboleggiare e tramandare secondo la loro concezione del mondo. Fortunatamente, ci sono numerosi Autori consapevoli della difficoltà d’interpretazione cui è soggetto il culto egizio, a causa della natura ermetica dei suoi testi scritti e di una Tradizione che si suppone fosse in larga parte orale, legata a un addestramento sacerdotale e attinente all’interpretazione dei simboli. Tuttavia, agli occhi di chi ha qualche conoscenza in ambito esoterico, alcuni aspetti e simboli dell’arte sacra e dei testi egizi suonano stranamente familiari, specialmente se raffrontati a miti successivi, e le cerimonie descritte echeggiano di una dottrina della Rigenerazione tanto cara alla Tradizione esoterica, che per chi è digiuno di occultismo è ben difficile interpretare altrimenti.
Basti pensare alla festa di Heb Sed, che ha radici protodinastiche e riecheggia un’usanza diffusa presso i popoli primitivi: l’uccisione del re anziano, considerato incarnazione umana della divinità.
Presente presso molte popolazioni antiche – dalla Cambogia, al Congo, all’Etiopia, per citarne alcune – questa uccisione rituale avveniva nel momento in cui il sovrano divino perdeva la sua forza fisica e la sua lucidità a causa dell’invecchiamento del suo abito di carne: essendo egli il sangue della terra, legato alla sorte del suo popolo, veniva fatto passare a miglior vita e quindi venerato come un dio, poiché se egli avesse continuato il suo regno in vecchiaia la terra avrebbe subito lo stesso declino del suo re. Presso gli Shilluk del Nilo Bianco un costume simile si è conservato fino a circa dieci generazioni fa: il vecchio re poteva essere sfidato dal suo successore, oppure morire in una capanna chiusa – di fame e di sete – con al suo fianco una vergine. Frazer, nel suo Il ramo d’oro, analizza alla radice questa Tradizione, comune a molte popolazioni e sopravvissuta fino ai Sacerdoti di Diana presso Nemi.
Da questo rito tradizionale, probabilmente, presero vita le cerimonie funerarie di divinizzazione dei defunti, dapprima riservate esclusivamente ai Faraoni, indi estese anche al popolo con la volgarizzazione del culto e la diffusione del Libro dei Morti. Tale cerimonia potrebbe anche esser paragonata, nel suo valore simbolico, alla morte e resurrezione del Re nella Tradizione alchemica (non a caso denominata Arte Reale).
È pressoché impossibile collocare con esattezza nel tempo il momento in cui l’antica uccisione rituale lasciò il posto alla cerimonia simbolica che conosciamo sotto il nome di “cerimonia della Rigenerazione”, in cui la morte simbolica del sovrano era seguita dall’innalzamento del pilastro Djed, rappresentazione fisica della colonna vertebrale di Osiride, archetipo con il quale il “defunto” giungeva a identificarsi dopo essere stato rigenerato.
Il sovrano “morente” veniva avvolto da un manto bianco a guisa di crisalide, lasciando scoperti le mani e il capo, attraendo così su di sé la Virtù del Signore dei Defunti – raffigurato nella stessa posizione – , il primo che percorse tutta la terra per civilizzarla. La crisalide richiama, in questo caso, il momento in cui il baco da seta, filando intorno al corpo la sua stessa bava, si isola dall’influenza del mondo per produrre la trasformazione di sé. Allo stesso modo, ripetendo il gesto di Osiride, il Faraone compiva una corsa rituale segnata da appositi confini che simboleggiavano il Paese, per poi lasciar spazio alla processione, che rendeva omaggio ai principali Neteru.
L’esempio della festa di Heb Sed basterebbe di per sé a porci dinnanzi a una riflessione a proposito della ritualità, azione simbolica per eccellenza che nel periodo dinastico sostituì usanze più crude, mantenendone però intatto il significato di rinascita del regno attraverso la sorte del suo reggente, che tramite la catarsi rituale giungeva a incarnare l’archetipo del primo, mitico Eroe e sovrano d’Egitto: ogni strumento utilizzato all’interno di un rito ha una sua funzione peculiare, diversa da quella che avrebbe nella vita quotidiana.
Questo approccio simbolico sottolinea che ogni oggetto, ma anche ogni parte del corpo e ogni cosa esistente, può essere vista attraverso una duplice ottica: quella della sua funzione comune, legata a ciò che l’uomo compie per mezzo di un oggetto, e quella della sua concezione astratta, cioè la cosa in sé, il noumeno kantiano. Noumeno, dal greco nooúmenon – νοούμενoν, era per Platone l’idea contrapposta alla realtà sensibile e fenomenica: per dirla con parole semplici, il noumeno rappresenta “il cuore della cosa”, la realtà della cosa al di là della nostra percezione di essa. Per poter comprendere il ruolo del Noumeno all’interno della realtà magica, è necessario considerare ogni cosa esistente come vivente, con una sua Intelligenza che si manifesta nella vita fenomenica, ma che dimora nel “mondo delle idee” o “mondo delle cause”. Secondo Kant, l’uomo può tendere indefinitamente al Noumeno, ma mai identificarsi totalmente con esso: egli mette in luce la forte contrapposizione tra la realtà soggettiva, confine umano invalicabile, e il mondo delle cause. Non così nel platonismo e, in genere, nella concezione magica e sintetica del mondo: secondo la concezione antica, l’uomo poteva eccome accedere al mondo delle idee, ma attraverso un processo peculiare di rigenerazione di sé. Ermete, nel tentativo di spiegare ad Asclepio che cosa implichi questa Rigenerazione – questa “Vita nuova” – così si esprime: “vedendo in me una visione immateriale, prodotta dalla misericordia di Dio, sono uscito da me stesso per trasferirmi in un corpo immortale, e adesso non sono più quello che ero prima, ma sono stato generato nell’Intelletto.”.
Non soltanto i riti, ma l’arte figurativa, la danza e lo stesso linguaggio scritto usato dagli egizi dimostrano che la mentalità di chi ideò un tale linguaggio era completamente diversa da quella odierna, e che l’approccio simbolico e sintetico era parte integrante di questa mentalità: il geroglifico, scrittura ideografica che pone in primo piano il concetto da esprimere, si contrappone nettamente al nostro alfabeto fonico, in cui il concetto cede il primato alla parola e, quindi, al suono e alla forma.
Il primato del concetto all’interno del linguaggio egizio risulta ancora più evidente nell’arte figurativa, in cui le caratteristiche dei Neteru venivano espresse tramite simboli e attributi grafici che si potrebbero definire archetipali, ed è appunto nella caratteristica archetipale espressa dal simbolo o dall’animale (noumeno), non nella raffigurazione dell’animale (fenomeno), che bisogna ricercare il significato di tali immagini divine.
Come ulteriore spunto di riflessione, si ricordi che la parola Neter, sovente tradotta come “divinità”, ha avuto un iter di traduzione assolutamente peculiare e permangono le incertezze sull’attribuzione di un significato univoco, sebbene alcuni Autori siano assolutamente sicuri nell’attribuirgli il significato di “archetipo” (cfr.: egittologia simbolica, in particolare Isha e R.A. Schwaller De Lubicz). Nel caso della traduzione di Neter con “dio” (cfr.: egittologia classica), si incorre infatti nella difficoltà insuperabile di dover spiegare come mai questo vocabolo fosse, indifferentemente, usato al singolare e al plurale, al maschile o al femminile, e anche ad oggetti di uso cerimoniale o a uomini comuni, Giustificati innanzi alla comunità in seguito all’espletamento dei riti tradizionali.
L’unico denominatore comune tra i vari usi del termine sembrerebbe essere l’attinenza col culto divino e funerario. D’altra parte, nei testi più tardi, si trova la parola “cuore” indicata con netjeri, e si potrebbe riportare la teoria di D. Meeks che, audacemente, si spinge oltre nel notare che in alcuni testi il cuore è considerato “la divinità che è nell’uomo”, così come “vivere secondo giustizia (Maat)” si rende con “seguire il proprio cuore”, e tenuto conto che il geroglifico dell’intelligenza è reso da un cuore con le orecchie. In questo senso, dunque, il cuore non corrisponde evidentemente all’organo fisico, ma si evidenzia simbolicamente come centro della vita dell’anima. Tentando una traduzione del simbolo antico in un simbolo più accessibile agli esoteristi odierni, questo centro della vita dell’anima lo tradurremo con la Rosa al centro della Croce, o come Eone.
In quest’ottica si può intendere che Neter indica un oggetto, un archetipo, una divinità o un essere umano che sia giunto – per nascita, sacrificio, magnetizzazione, regalità o agendo secondo giustizia – ad uno stato d’Essere superiore, che ha come conditio sine qua non il raggiungimento di un Centro “altro” rispetto a quello della vita comune, Centro vivente nel mondo delle cause.
Anche un oggetto, caricato di magnetismo animale o con un atto di volontà o di fede, acquisisce una sorta di “vitalità” sua propria su questo piano vibratorio, basti pensare all’uso dei talismani che, una volta magnetizzati, smettono di essere semplici “pezzi di metallo”, assumendo un altro tipo di vitalità: ecco, dunque, che quadra l’usanza di appellare Neter anche degli oggetti inanimati che fossero impiegati in funzioni cultuali.
È curioso notare come Osiride, nella sua Virtù di “Giudice supremo dei morti”, sia appellato “il Neter dal Cuore arrestato (stabile, fisso)”. Questo stato d’Essere, una volta conseguito, accomuna uomini e dei: il Faraone diventa Neter all’atto dell’incoronazione; l’uomo comune diviene giustificato in seguito alla corretta pratica rituale ed etica; gli oggetti rituali in seguito a consacrazione e uso cerimoniale.
Ma i vari tipi di Neteru, a prescindere dal diverso modo che ha ogni specie vivente di accedere a questo stato, sarebbero “accomunati”, ci si chiederà, da che cosa? Da un centro vitale che si apre ad un mondo “altro”, ma altrettanto reale: il mondo delle cause, per gli egizi la Duat, cui è possibile accedere, per gli uomini, solo dopo aver superato la prova del “giudizio” Osirideo, in un viaggio dell’anima che ripercorre le stesse tappe della morte di Osiride verso la totale identificazione con lui e, quindi, con le stelle imperiture.
In verità, in queste righe stiamo prendendo in esame l’identificazione con Osiride, che appartiene all’uso cultuale più tardo, periodo in cui si collocano quasi tutti i testi oggi conosciuti (anche se si suppone che alcuni abbiano radici provenienti dall’Antico Regno), ma è bene sottolineare che la centralità di Osiride nel culto è coeva alla caduta dell’Antico Regno e capiterà, anche più avanti nel corso di questa trattazione, di trovare allusioni all’identificazione del Faraone con Ra e al percorso della barca di Ra nel cielo notturno, attraverso il quale il Sole transitava per risorgere ogni giorno e tornare a illuminare il mondo. Non creda il lettore che si tratti di una discrepanza. Al contrario, questa “discrepanza” tra la centralità di Ra o di Osiride ha origine proprio dalla democratizzazione del culto egizio che fu denominato “funerario”, riservato per lungo tempo ai soli Faraoni e Sacerdoti. Essi, al termine del rituale funerario, venivano posti sulla barca solare guidata da Ra perché essi, come il Sole, illuminavano (durante la vita e oltre) la terra che governavano, mentre nelle cerimonie riservate ai ceti più bassi il viaggio termina con l’identificazione del defunto con Osiride e la nuova vita nei campi Iaru, così come vengono descritti nel Nuovo Regno; nei Testi delle Piramidi, tuttavia, essi appaiono ben diversi rispetto a un Paradiso post-mortem: essi erano anticamente situati nel cielo, e ogni notte la barca solare di Ra visitava i defunti nel suo viaggio attraverso le stelle.
Il repentino declino della civiltà egizia, collocabile alla fine dell’Antico Regno, è un punto oscuro della storia: alcuni hanno teorizzato rivoluzioni, invasioni o passaggi di potere dal clero di Atum a Eliopoli ad un altro clero, o ancora passaggi di proprietà dal potere centrale al sacerdozio e alla nobiltà, ma niente si regge su solide basi né su prove. Esso coincide, in ogni caso, con la misteriosa scomparsa delle conoscenze tecnologiche e ingegneristiche che portarono alla costruzione delle Piramidi di Giza: alcune altre Piramidi furono costruite, di dimensioni ridotte, ma oggi la maggior parte di esse non consta che di un mucchio di macerie.
Non bisogna mai dimenticare, in sostanza, che il culto egizio nacque come culto aristocratico, riservato a pochi, e che nell’Antico Regno l’identificazione con l’Eone era riservata alla casta regnante: il povero era relegato in terra, nella tomba, e soltanto in epoca tarda, nel Medio Regno, il Faraone "acconsentì" ad essere identificato, oltre che con Ra, anche con Osiride; la divinizzazione di questo eroe leggendario (Anzty, di cui abbiamo già parlato) avviene ponendo la sua anima tra le stelle così come, nei Testi delle Piramidi, il Faraone divinizzato prende dimora tra le stelle imperiture: il processo di deificazione ci mostra le stelle come dimora dei corpi incorruttibili e lo stesso re, nella sua glorificazione, ascende alle stelle per brillare in mezzo a loro. In effetti, nei Testi delle Piramidi, la Duat (Oltretomba) viene indicata con una stella. Ma a questa Duat pare avessero accesso soltanto i corpi gloriosi, mentre il defunto comune era relegato alla tomba e a un’esistenza che, seppure collocata su un piano di manifestazione più sottile, era pressoché analoga a quella che aveva vissuto sulla terra. Il Papiro di Torino (c.d. Libro dei Morti) contiene, sì, le formule “per uscire alla luce del giorno” precedentemente riservate ai regnanti e ai Sacerdoti, e questa fu una grande conquista per il popolo, sebbene si presume che chi usava, tra i ceti più bassi, dette formule, non ne conoscesse il reale significato, supposizione che si basa sui motivi qui di seguito esposti.
Leggendo con attenzione i “Libri” ritrovati nelle tombe dei regnanti si evince con una certa facilità che questo "lungo viaggio dell'anima" pare non fosse riservato ai "morti": nel Libro dell'Amduat, risalente alle tombe dei regnanti della XVIII dinastia (Trad.: “libro di ciò che vi è nella Duat”), leggiamo infatti più volte che "è la medesima cosa conoscere tali cose sulla terra o nella Duat: chi conosce tali cose avrà grande giovamento sulla terra". D'altra parte ciò spiegherebbe l'usanza, presente anche nel Libro dei Morti, di riportare formule "da recitarsi dal defunto": non so se voi abbiate notizia di morti che recitino e parlino in prima persona... alcuni ritengono che questa usanza sia rimasta in auge durante la volgarizzazione del culto (che fu "funerario" solo per il popolo), ma che si trattasse di una conoscenza iniziatica da acquisire in vita.
In altri testi più tardi, sempre di natura aristocratica, il viaggio sulla Barca di Ra non fu mai sostituito dalla mera identificazione con Osiride: nel Libro delle Caverne, ritrovato nelle tombe di alcuni regnanti della XX dinastia, vediamo la barca solare di Ra alle prese con un viaggio attraverso le 12 costellazioni zodiacali, affiancato dagli Akhu.
Questa discrepanza tra il culto funerario popolare e quello aristocratico spiega la presenza, anche in papiri molto recenti, di alcune missive poco cortesi che Ra invia a Osiride (“Ah!, se soltanto tu non avessi visto il giorno!”, papiro Chester-Beatty), oppure di vere e proprie invocazioni anti-osiriane, sintomo, forse, di un ancora non sanato contrasto tra la visione solare e aristocratica della Via e la visione volgarizzata, osiriana, dovuta alla democratizzazione del culto, nonché motivo per cui esistono alcune forti difformità tra i testi funerari che si conoscono sotto il nome di Testi delle Piramidi, le iscrizioni rinvenute nelle tombe dei regnanti e, dall’altro lato, alcune formule più tarde del Papiro di Torino ritrovate nelle tombe “povere”, che dimostrano come il culto funerario si fosse esteso anche ai ceti borghesi della popolazione con la decadenza che portò alla fine dell’Antico Regno e all’inizio di un nuovo periodo, in cui anche le caste più umili ebbero un culto sacro; questo stesso ideale, di una liturgia estesa al popolo, lo seguirono tutte le grandi religioni, sia dei tempi antichi che dei tempi moderni.
Ci troviamo dunque di fronte ai due volti del Tempio: quello esoterico, rappresentato dal culto faraonico, aristocratico e stellare dell’Antico Regno, e quello volgare, il cui viaggio termina in un momento antecedente rispetto al lungo viaggio del Re; possiamo però notare la presenza di elementi sufficientemente chiari nel far intendere che il culto passò, sì, nelle mani dei ceti meno elevati, ma non con esso la sua interpretazione, quindi decadendo da sacerdozio esoterico a una sorta di religione funeraria exoterica che del primo conserva soltanto la simbologia e le formule ormai svuotate del loro significato reale: nelle tombe della XVIII dinastia inizia ad essere presente il c.d. “Libro dell’Amduat”, nel quale chiaramente si legge: “È lo stesso aver compiuto queste cose nell’occulto della Duat o sulla terra. Chi conosce ciò è tra coloro che sono nella barca di Ra in cielo e sulla terra.”. Anche dai Testi delle Piramidi, in effetti, si ricava che il Faraone vive al fianco degli Eoni, pur conservando il suo corpo fisico e le sue prerogative reali.
Lo stesso De Rachewiltz a lungo difese l’idea che il “culto funerario” non fosse legato alla morte fisica, ma ad una morte iniziatica e alla realizzazione dello stato di Akh (akh = glorificato, spirito trasfigurato), secondo il vecchio adagio “morire in vita e vivere nella morte”. Nell’inno 213, §134 dei Testi delle Piramidi leggiamo infatti: “O re, tu non sei dipartito morto. Tu sei dipartito vivo.”

 

Il viaggio del defunto: realtà o simbolo?

Abbiamo già accennato a quella forma mentis moderna che, alla luce degli usi attuali, vorrebbe interpretare il mondo antico. Poco conosciamo dell’Egitto in se stesso, specie dell’Antico Regno, e molto ci è giunto, invece, da una trasmissione greca degli usi egizi e dall’epoca tolemaica; se consideriamo, poi, che all’interpretazione greca dobbiamo aggiungere duemila anni di cattolicesimo, ecco che si spiega il comune atteggiamento mentale che si assume guardando al culto egizio, come fosse niente più che una tradizione esclusivamente religiosa e agreste.
Per la nostra mentalità, infatti, la raffigurazione di un archetipo tramite un simulacro non può che apparire alla stregua di un’immagine da adorare, lasciando in secondo piano le asserzioni – che pure ci giungono direttamente dall’epoca in questione – che fugano ogni dubbio rispetto al fatto che gli Egizi considerassero i simulacri come meri oggetti raffiguranti la Virtù archetipale, e non già la forma assunta da un dio. La differenza sembrerebbe sottile ma non lo è, poiché ci fa capire, ancora una volta, che la realtà a cui si guarda non è quella fenomenica bensì quella Noumenica: una realtà vivente che sta oltre il simbolo. E gli Egizi, effettivamente, sembrano essere ben consapevoli che la realtà da rappresentare attraverso pitture, sculture e testi appartiene a un diverso piano d’esistenza, per il quale non esiste un linguaggio – umano – univoco da adottare, ma che può essere reso soltanto con l’ausilio di idee pure poste alla guida di un viaggio dell’anima oltre lo spazio e il tempo, in una realtà invisibile in cui l’esperienza vissuta dall’anima cambia per sempre l’individuo, a livello sia spirituale che terreno. Un ardito volo nell’etere rarefatto ove le cose non sono ciò che sembrano, ma ciò che sono.
Sovente, infatti, capita di leggere infinite trattazioni che mettono in luce i minimi dettagli di una cerimonia che avveniva al tempo della mietitura, tralasciando quasi completamente ciò che la morte e resurrezione della terra rappresentano. Certamente vi sono, in tutti i culti e le epoche, diversi livelli di lettura della Tradizione, ma non bisogna dimenticare che la religione popolare è soltanto il primo di questi gradini, il muro più esterno della cerchia del Tempio.
In questa trattazione cercheremo non già d’interpretare il culto popolare alla stregua di una religione, bensì di far emergere, attraverso le varie fasi del rituale funerario, le varie fasi della trasmutazione dell’individuo. L’umano che tende alla trasformazione di sé per accedere al “mondo delle idee” è giunto, infatti, al primo gradino delle mura interne del Tempio, ma è chiaro che lo stato di Glorificato non può esser conquistato che divenendo un Neter egli stesso e ripercorrendo cioè le stesse prove, soffrendo degli stessi dolori, rievocando insomma una trasmutazione archetipale e facendola vivere in sé. Dalle lontane sfere delle Idee pure l’uomo richiama un’antica storia, la storia del primo civilizzatore della terra che morì nella carne per divenire immortale e trasfondere la sua “Vita Nuova” nella terra che era chiamato a governare. Richiama il percorso della Barca Solare di Ra attraverso una notte che sembra eterna, fiancheggiato da creature mostruose e terribili prove. Richiama nella sua carne la leggenda stessa, invitandola a vivere ancora una volta, a trasformare un uomo ancora da individuo di carne, emozione e pensiero a un Rigenerato.
Alcune questioni rimarranno aperte, affidate all’intuito di chi legge: ad esempio, se tale viaggio “oltre la vita” sia connesso alla morte fisica (Egittologia classica) o a una morte simbolica e iniziatica (Egittologia simbolica); oppure se ciò che nel Medio Regno entrò a far parte di un culto funerario esteso a gran parte del popolo fosse, in realtà, la volgarizzazione di un culto sacerdotale ben più antico, che precedentemente rivestiva una funzione esoterica all’interno del Tempio. Domande alle quali chi scrive non tenterà nemmeno di dare una risposta univoca, demandando il compito agli esperti o, perché no, alle riflessioni che il lettore vorrà fare. Per quanto si possa studiare o recarsi in loco, infatti, l’Egitto antico rimane un mistero e tutto ciò che possiamo offrire è una delle molte ipotesi che si basa su alcuni punti fermi; troppo pochi, in ogni caso, e specialmente troppo recenti (legati cioè, a parte rari casi, alla fase di volgarizzazione del culto) per avere qualunque tipo di certezza in merito; troppo pochi per parlare di scienza, da entrambi i lati della barricata dell’egittologia ci si voglia schierare. Ciò che vorremmo risultasse chiaro, prima di procedere, è che il culto egizio presenta due fondamentali problemi per gli interpreti: il primo è che non si può mai parlare di un culto unitario, ma soltanto di un culto preponderante (se pure). Il secondo è che, sebbene alcuni ritengano di poter parlare di enoteismo, al più si potrebbe propendere per una visione neoplatonica di ipostasi: questa sembra la chiave di lettura esotericamente più ragionevole, specie per quanto riguarda le teogonie di Eliopoli, Menfi e Tebe.
A un metodo scientifico e il più possibile privo di voli pindarici tenteremo di attenerci nell’illustrare il culto funerario legato all’identificazione con Osiride e, quindi, procedere a brevi cenni sulla Barca Solare di Ra e sull’identificazione del defunto con le stelle e sulla sua partecipazione alla vita eonica.

 

L’Antico Regno e la teogonia di Eliopoli

Ciò che sopravvisse alla caduta dell’Antico Regno è conservato nei Testi delle Piramidi e nel mistero della loro costruzione. Entrambi i reperti ci parlano, più apertamente di quanto forse osino fare gli archeologi, di uno splendore del culto che ebbe pochi eguali nella storia.
Tutto iniziò, secondo la teogonia eliopolitana, con la partenogenesi di Atum, laddove partenogenesi è un termine che indica la generazione da se stesso; ritroviamo questo termine nella partenogenesi di Maria, che generò Gesù senza l’ausilio di un uomo. Nelle più insigni traduzioni, di Sethe e di Faulkner, dei Testi delle Piramidi, troviamo gli albori della Tradizione ermetica, e in effetti il più antico tempio d’Egitto è situato a Eliopoli e fu chiamato Per-Aat (grande casa) o Per-Atum (casa di Atum): qui viene rivelato l’atto creatore che diede impulso alla vita universale e si narra di come Atum sorse dal Nun, l’oceano primordiale in cui giaceva addormentato. Le altre due principali teogonie, quella di Menfi e quella di Tebe, non saranno trattate in questa sede a causa della lunghezza della trattazione che una comparazione di queste comporterebbe.
Basti dire che, nel silenzio del Caos primigenio, nel Brodo primordiale che gli egizi chiamavano “acque”, con un evidente richiamo all’ambiente generativo, un’Intelligenza si destò e prese coscienza di se stessa. In tutte le Tradizioni il risveglio del Principio Primo è adombrato dal mistero, come a dire che l’autocoscienza non appartiene alla sfera della logica e, se pure seguisse una Legge, questa non è stata ancora dagli uomini scoperta né compresa. D’altra parte, nessun filosofo o scienziato ha mai cercato di spiegare l’enigma dell’essere, ed è altresì noto l’errore intrinseco nell’affermazione cartesiana “cogito ergo sum”: la critica più frequente è quella di rovesciare la frase in “sum, ergo cogito”.
In questa universale placenta avvenne quindi il primo risveglio dell’Essere, padre dei Neteru: egli sorse come una collinetta dalle acque, cioè si distaccò da ciò che allora costituiva l’unica cosa esistente, quindi generò da se stesso l’Enneade:

“O Atum, quando venisti in essere tu sorgesti come un’alta collina,
 tu sorgesti come la pietra ben-ben nel Tempio della Fenice a Eliopoli,
tu sputasti fuori Shu e tu sputi fuori Tefnut,
e tu ponesti le tue braccia su di loro come le braccia del Ka,
così che la tua essenza potesse albergare in loro.”
[Sethe, Pyramidentexte, pag. 1652]

 

In epoca più tarda questo primo Neter fu chiamato col nome di Atum-Ra e identificato col tramonto del sole, testimoniando un declino di questo culto primigenio: a causa di questo mutamento e della perdita della centralità della figura di Atum come Creatore dell’Enneade, alcuni storici hanno ipotizzato un passaggio di potere dal clero di Atum al clero di Ra, segnando la fine del culto stellare e l’inizio del culto solare. Le ipotesi sulla decadenza dello splendore della teocrazia faraonica, tuttavia, sono le più varie e nessuna ha avuto ancora un generale riconoscimento da parte della comunità archeologica.
Assistiamo, nei Testi delle Piramidi, a un atto di autocreazione in cui Atum emette, col suo seme, Tefnut – il principio umido – e Shu – il soffio. Da questi due principi trarranno origine Geb, la terra, e Nut, il cielo stellato. Questi stavano tutto il tempo immersi nel loro amore, impedendo alla vita di germogliare: Atum-Ra diede quindi ordine a Shu di separarli, ed egli pose Geb sotto i suoi piedi e con la braccia sollevò Nut.
Thot però aveva un piano, e così sfidò Atum-Ra a un gioco chiedendo, se avesse vinto, che gli fosse accordato un tempo corrispondente a cinque giorni all’anno. Thot vinse la sfida e gli furono accordati i cinque giorni che, nel calendario egizio, furono detti epagomeni: in questi giorni Nut e Geb poterono riabbracciarsi ed essi concepirono Iside, Osiride, Seth e Nephtys.
Nella teogonia di Eliopoli questi primi Neter costituirono l’Enneade.
Pare, però, che la sapienza di Eliopoli non si fermasse alla teogonia e alla segreta interpretazione di essa: i sacerdoti possedevano competenze astrologiche che perfino al giorno d’oggi sembrano incredibili, come dimostra l’orientamento delle Piramidi e dei condotti (che per molto tempo furono ritenuti semplici condotti d’areazione) che puntavano direttamente alle costellazioni in cui posero i loro Dei. Non è nostro dovere fare luce sui misteri sepolti e svelare come gli Egizi, i Caldei, i Sumeri conoscessero i corsi e ricorsi degli astri: rimane il fatto che i loro calendari, gli animali sui frontoni dei templi, l’orientamento dei monumenti ciclopici, parlano tutti la lingua delle stelle e mutano insieme al cammino delle Ere sulla Terra.
Presumibilmente è in questo stesso periodo che si sviluppa l’astrologia decanale, basata sui cicli di Sirio e del Sole.
Nei calendari Egizi il nuovo anno corrispondeva al sorgere eliaco di Sirio, il cui significato è “splendente, lucente”, che avveniva nel solstizio d’estate, stella identificata con Sothis-Iside annunciata da Anubi (Canis maior e Canis minor). La Stella si trova infatti nella costellazione del Cane e precede il cacciatore Orione (Osiride, appunto); vediamo mantenersi questa tradizionale figura presso molte divinità femminili: il cane di Hekate e di Diana, ad esempio.
Insieme, le due stelle accompagnavano Orione, il Grande Cacciatore associato a Osiride, guardandogli le spalle dall’infido Scorpione, Seth, annunciatore dell’inverno e del declino della luce solare.
Il sorgere dei due astri (Sirio e Sole) nello stesso momento, cioè il sorgere eliaco di Sirio, avveniva a quel tempo circa al solstizio d’estate, segnando la vittoria della luce sulla potenza delle tenebre, nonché la rigenerazione della fertilità della terra. Eppure, questo evento aveva una portata ben più grande: in base ai cicli di Sirio e del Sole, gli Egizi costruirono un calendario particolare, che potremmo definire “calendario delle epoche”.
Una volta ogni 1460 anni l’anno vago (365 giorni del calendario civile) coincide col vero anno solare, di 365,2423 giorni. Questo arco di tempo, di 1460 anni tra due congiunzioni, è l’anno sothiaco, diviso a sua volta in 36 spicchi, chiamati “decani”, che nulla hanno a che vedere con le 12 costellazioni essendo piuttosto “porzioni di cielo” di 10° ciascuna che s’iniziavano a succedere dal sorgere eliaco di Sirio, il primo giorno dell’anno.
Secondo questo sistema decanale, ogni anno sothiaco era diviso in 36 fasce di 40,56 anni ciascuna, determinando il carattere delle epoche, tenendo anche conto del fenomeno di precessione degli equinozi.
Per queste ragioni, a Sirio fu dato l’appellativo di “via delle anime”, perché i suoi fenomeni celesti fissano i caratteri delle epoche umane.
Il sorgere eliaco di Sirio era considerato dagli Egizi come il ritorno della Regina, che annuncia la resurrezione della luce, e per questo era considerato l'inizio del nuovo anno: Iside era colei che sconfiggeva lo Scorpione-Seth, costellazione invernale che vinceva sul dio solare e dava inizio all'inverno. Sempre Iside-Sirio annunciava l'approssimarsi della piena del Nilo e l'inizio della fertilità.
A Lei veniva dato appunto il nome di Iside Annunciatrice, Stella del Mattino in ciò che rimaneva della tradizione stellare, in cui la dottrina della Rigenerazione veniva spiegata attraverso il corso degli Astri, nell’armonia della Terra coi Cieli.
I Testi delle Piramidi sembrano muovere appunto da due presupposti: la teogonia, da un lato, e un misterioso culto stellare, dall’altro. Mentre la teogonia è comprensibile attraverso i simboli in essa contenuti, non è chiaro cosa gli egizi intendessero quando parlavano di “stelle”: in particolare essi si riferivano ad esse come “le incorruttibili”. Ma questo sarà considerato più avanti nel corso della trattazione. Per ora, avendo posto qualche base sul culto dell’Antico Regno, passeremo a esaminare il culto presente dopo di esso e ciò che sopravvisse alla caduta del “tempo dell’oro”.
Ricorderemo anche, prima di procedere, come Osiride fosse già presente nei Testi delle Piramidi e come, durante l'ascesa alle stelle, il Faraone s'identificasse con lui ma anche con tutti gli altri Neteru, facendo quindi notare che De Rachewiltz non teorizza, in realtà, un culto erga omnes di Ra più antico e un culto di Osiride più tardo: egli è consapevole della complessità della realtà egizia, al contrario di molti suoi superficiali lettori. Vero è, tuttavia, che nel Libro dei Morti la meta per il defunto rimane l’identificazione con Osiride e la vita eterna nei Campi Iaru, ma in Egitto non si può mai parlare di un "monoteismo" di Ra, né di un "monoteismo" di Osiride: i Neteru sono molteplici e sono tutti ipostasi di Atum e le teogonie si rivelano molto più che affascinanti favole. Per dirla in parole semplici, bisogna entrare nel simbolo per comprendere a cosa si riferisce, non fermarsi a dire "questo è un attributo di Osiride" ma cercare di capire cosa simboleggia e perché è lì.

 

Il mito di Osiride

Partiamo innanzitutto descrivendo sommariamente il mito di Osiride, per chi non lo conoscesse. Si è già accennato alla figura di Osiride-Anzty come leggendario civilizzatore della terra d’Egitto.
Egli civilizzò i popoli senza l’uso delle armi, percorse tutta la terra per portare i suoi doni, come Prometeo portò il fuoco agli uomini e come Azazel nel libro di Enoch, seguito dalle schiere di angeli caduti, insegnò le arti agli uomini primitivi.
La gloria di Osiride sulla terra destò la gelosia del fratello Seth, l’ardente dio che imprigiona il fuoco nella terra, il cui animale identificativo è lo scorpione. Seth non poté creare disordini durante l’assenza del fratello, perché Iside vegliava sul regno. Ma quando il fratello tornò, con l’aiuto della regina d’Etiopia e di settantadue congiurati, tramò contro di lui.
Seth fece costruire un sarcofago (alcuni dicono un’arca) riccamente decorata, della misura di Osiride, e la fece portare durante un banchetto, promettendola in dono a colui che fosse riuscito a entrarvi. Tutti i convitati l’ammirarono e tentarono d’entrarvi; per ultimo, tentò Osiride. Ma non appena Osiride entrò nel sarcofago, i servi di Seth lo richiusero sopra il suo capo, lo sigillarono con chiodi, vi versarono sopra del piombo fuso e lo gettarono nel fiume, verso il mare aperto. Ciò avvenne, si narra, il 17 del mese di Athyr, giorno in cui il sole attraversa lo scorpione, nel ventottesimo anno del regno di Osiride (notate il numero 28, corrispondente ai giorni che compongono un ciclo lunare).
Iside, conosciuta la sorte del marito, si vestì a lutto e vagò cercandolo per tutta la terra, innalzando il suo lamento. Seppe anche che, credendo di giacere con la sua sposa, aveva generato un figlio con la sposa di Seth, Neftys. Questo figlio era Anubi.
Dopo lunghe e faticose ricerche Iside venne a sapere che la bara era stata sospinta dalle onde verso la costa di Byblos, ed era stata coperta dall’erica che l’aveva avvolta, rigogliosa, in un abbraccio che la nascondeva alla vista. Iside, in silenzio, si mise al servizio delle serve della regina: con l’ambrosia che stillava da lei intrecciò i loro capelli e la stessa ambrosia riservò al figlio della regina, avvelenato dal morso di uno scorpione, insieme alle parole di potere che gli salvarono la vita (questa parte del mito è pressoché identica al viaggio di Demetra ad Eleusi).
Passato del tempo presso la famiglia reale come balia, Iside si rivelò ai regnanti come consorte del grande Re e chiese la bara di suo marito, quindi si mise in viaggio. Non appena fu sola, ella pianse le sue lacrime sul corpo dell’amato.
Ma il fratello adirato non aveva ancora terminato la sua opera: vide la bara una notte mentre cacciava al chiaro di luna e, trovato il corpo del nemico, lo tagliò in 14 pezzi e li disperse su tutta la terra. Su una barca di papiro, Iside riuscì a trovare i 13 pezzi del corpo e a ricomporli. Ma il quattordicesimo talismano, il fallo di Osiride, era stato divorato da un pesce del Nilo.
Iside, quindi, costruì con le sue mani un simulacro del fallo del marito usando il limo del Nilo e, con l’aiuto della sorella, rimise insieme i suoi resti. Quindi prese la forma di un uccello rapace e s’ingravidò del marito, generando Horus. Secondo un’altra versione del mito, Iside guardò il marito e attraverso l’amore dei suoi stessi occhi rimase gravida.
Quando Horus fu pronto, egli sfidò lo zio Seth.
La dura guerra tra i due, durata più di 80 anni, ebbe fine quando Seth venne accompagnato davanti all’Enneade e legato a un palo. Qui, egli confessò stancamente di aver usurpato il trono del re, e riconobbe il legittimo erede. Allora Ra-Horakty disse: “gli si permetta di rimanere al mio fianco come mio figlio! Tuonerà nel cielo e si avrà paura di lui!”.
Ecco dunque, in questo mito, le battaglie dell’iniziando di fronte alla tremenda forza terrestre, rappresentata dalle ire di Seth. Questa lunga guerra, che dura tutta una vita, è il passaggio necessario per dare all’eroe umano (Horus il giovane) il titolo di “erede legittimo” del Re risorto: uno dei volti di Osiride è infatti quello di “dio del grano”, perché come il grano egli muore nella terra per risorgere. Comprendi bene il fatto che Osiride sia un dio nero, un Neter di morte: Egli non è manifesto se non tramite il Figlio, né acquista la sua vera natura finché non si compie il sacrificio di sé alla furia del fratello: in questo senso si parla di morte iniziatica. Nota anche che Horus non può dirsi erede del regno finché non finisca la battaglia contro il carnefice di suo padre: questo perché “l’anima si tempra nella lotta” (Ermete Trismegisto).
Passiamo ora attraverso la ritualità della morte, per vedere come questa figura mitologica s’inserisca nel viaggio dell’anima attraverso le peripezie della Duat. Come l’individuo muoia, sia smembrato e ordinatamente riposto nei vasi canopi raffiguranti i quattro figli di Horus, risorga ed infine sia dichiarato giustificato e s’identifichi con Osiride.
In queste tre fasi possiamo identificare le tre fasi dell’Opera: morte, resurrezione e glorificazione.

 

Fase I: Anubi e la mummificazione. La purificazione

Questa prima fase del processo di morte, rigenerazione e glorificazione del defunto è associata all’opera di Anubi, il Neter dalla testa di sciacallo che, per ordine di Ra, imbalsamò le spoglie di Osiride. Dai Greci questo dio fu associato a Ermanubi, cioè Hermes nella sua funzione di psicopompo, che accompagnava le anime nell’aldilà.
Con la morte il Ka (spirito o forza vitale) si separa dal Ba (l’anima, raffigurata come Bennu, la fenice) e sopraggiunge la cessazione delle funzioni corporee. Il Ka, in epoca antica, caratterizzava solamente gli dei e il Faraone: esso sopravviveva alla morte corporale e seguiva le sorti dell’individuo cui era appartenuto. Per tale ragione, prese il nome di “doppio” dell’individuo, cui si accompagnava in alcune raffigurazioni, eternamente giovane e non soggetto al declino del corpo fisico. L’atto della morte è denominato “andare al proprio Ka”.
Nel primo periodo che segue la morte siamo in una fase che si potrebbe definire “limbo”, un’attesa in cui le azioni dei vivi possono coadiuvare il processo di rigenerazione del defunto, che è in procinto d’iniziare la prova più importante della sua esistenza, il suo viaggio nella Duat, viaggio che porterà alla sua rigenerazione e glorificazione e che, in quanto tale, richiede una specifica preparazione del corpo e dell’anima, tale da restituire al candidato la carica magica nella sua integrità e permettergli di attraversare vittorioso il lungo viaggio.
È in questo frangente che il sacerdote di Anubi, con i suoi stretti collaboratori, poteva avvicinarsi al corpo del defunto indossando la maschera rituale, e procedere all’imbalsamazione. È curioso il fatto che nessun altro, nemmeno i sacerdoti stessi privati della loro maschera, potesse avvicinare la salma: in questo si evince uno stretto rapporto tra il defunto e Anubi stesso. Trattandosi di un rituale sacro, infatti, esso non va mai diviso dall’analogia simbolica: è Anubi stesso a operare sul corpo fisico, richiamando un’analogia che si ripercuote sugli altri piani d’esistenza, secondo il vecchio adagio: “tutto ciò che è in alto è come tutto ciò che è in basso, per fare il miracolo di una Cosa Unica.”.
La preparazione del corpo a questo viaggio si giustifica con la credenza che il legame tra il mondo e la Duat rimanesse in essere per un certo periodo dopo la morte. Il distacco dell’anima dal corpo fisico avviene infatti con un’ineluttabile separazione degli elementi vitali, di cui la naturale conseguenza è l’oblio. Mantenere perciò integro il corpo e provvedere alla nutrizione del Ka del defunto tramite le offerte rituali e il corredo funerario poteva assicurare che la separazione degli elementi fosse ritardata nel tempo, dando modo al defunto di costruire la sua integrità, dopo avere superato integro, con l’aiuto della magia e delle offerte, le prove a lui destinate. L’immortalità non è dunque facile a conquistarsi.
Preliminarmente il corpo del defunto veniva lavato in bacini sacri a ciò adibiti (ne abbiamo un esempio all’esterno del Tempio di Karnak), per purificarlo dai residui della vita fisica. L’acqua salata del bacino sacro simboleggia le acque del Nun, l’oceano primordiale da cui sorse Atum, colui che, da solo, generò l’Enneade. Il clima dell’Egitto provvedeva da sé a una naturale essiccazione e conservazione dei corpi, processo che in epoca più tarda fu accelerato e portato a perfezione tramite i processi di imbalsamazione rituale. Da questo possiamo dedurre che non si mirava alla conservazione del corpo in sé e per sé, ma si riteneva indispensabile che l’opera di natura fosse adiuvata da un’azione magica.
Quindi la salma veniva portata nella c.d. “Casa della morte” dove Anubi l’attendeva per estrarre dal corpo gli organi vitali (cervello, cuore, fegato, reni, ecc…). I principali organi (stomaco, polmoni, fegato, intestini) venivano racchiusi nei vasi Canopi, raffiguranti i quattro figli di Horus che assistettero alla mummificazione di Osiride, mentre la salma veniva lavata con acqua e profumi, quindi immersa nel natron, un carbonato idrato di sodio che assorbe l’acqua e distrugge i batteri responsabili della putrefazione. Lì rimaneva immersa per 36 giorni, quindi estratta, imbottita di sabbia o lino, spalmata di olii per impedire che la pelle si frantumasse, munita di amuleti (ad esempio, al posto del cuore veniva posto l’amuleto di Kepri, lo scarabeo stercorario) e fasciata con bende di lino. Il bendaggio della salma durava circa due settimane ed era accompagnato da preghiere rituali (ad es.: “Il tuo Ba vivrà per sempre, come Orione nel ventre della dea Nut. Ti manifesterai nell'essere d'oro, brillerai come l'elettro. Nel grembo stellare ricoprirai una funzione generale. Il tuo nome sarà grande nella Duat.”).
A questo punto, il corpo era pronto. E, tramite l’azione magica, che corrisponde all’ “azione del Ka sui tre piani dell’esistenza” (He-ka è infatti il geroglifico che indica il “potere”), potremmo dire che il defunto nel suo complesso aveva espletato il rito purificatore e si era trasferito correttamente dal corpo terrestre a quello ultraterreno.

 

Fase II: la rivitalizzazione e la resurrezione

La rivitalizzazione aveva inizio con la cerimonia dell’apertura della bocca, che risvegliava i sensi del defunto permettendogli così di presentarsi al tribunale della psicostasia nella sua forma purificata e vivificata: le bende che lo avvolgono sono il dono di Neith, Neter della tessitura, colei che – simile in questo alle Parche e alle Moire – dà ordini cui nessuno, uomo o dio, può disubbidire. Il sacerdote apre la bocca del defunto con uno speciale strumento a ciò adibito (il pesh kf), restituendogli il dono della parola, mentre Anubi lo profuma con incenso e mirra e sul suo volto viene posta una maschera d’oro – parrà qui, a qualcuno, di sentir riecheggiare i tre doni che i Magi venuti dall’Oriente portarono al Re del Mondo quando venne alla luce nella mangiatoia.
È appunto l’incontro con il tribunale dei Neteru la sua prossima meta, alla quale per una vita intera egli si è preparato, ma per comprendere questo aspetto del viaggio del defunto dobbiamo ricollegarci per un istante alla cerimonia di investitura del Faraone: egli, all’atto dell’ascesa al trono, prestava giuramento a Ma’at, perciò è assai agevole comprendere perché, alla fine della sua vita, egli dovesse dimostrare a Ma’at di aver prestato fede a quel giuramento.
Ecco quindi che, munito dei suoi amuleti, mentre il suo corpo giace al sicuro nel sarcofago e tutto è stato disposto affinché gli effluvi delle offerte nutrano il suo Ka, egli avanza nei reami dell’Amenti, dove le sue prove lo attendono per giungere infine dinanzi al tribunale di Osiride.
All’immissione dell’individuo nell’eternità provvedevano a questo punto direttamente i Neteru col loro giudizio, poiché qui finiva il compito dei sacerdoti.
Vitalizzato, il defunto giungeva infine nella sala di Maaty, dove Thot e Anubi sorvegliavano la pesatura dell’anima, sottoposta al giudizio di Ma’at. Ella reggeva una bilancia e su uno dei due piatti era posta una piuma, mentre nell’altro veniva posato il cuore dell’individuo. Qui, di fronte a 42 giudici, il defunto recitava la sua “confessione negativa”, o dichiarazione d’innocenza, che constava appunto di 42 affermazioni quali:

Non ho detto il falso
non ho rubato
non ho ucciso uomini
non ho detto bugie
non ho sottratto cibo […]

Thot prendeva nota di ogni singola affermazione e, nel caso la bilancia avesse oscillato, il cuore del defunto sarebbe stato divorato dal mostro Amit (in alcuni testi, il serpente Apopis). Se la bilancia, invece, fosse rimasta in equilibrio, il defunto sarebbe entrato “a cuor leggero” nei Campi Iaru, cioè il regno di Osiride.
Per favorire il buon esito della psicostasia il defunto era accompagnato da un corredo di amuleti e formule, che ritroviamo nel Libro dei Morti.
In questa fase, dunque, il defunto deve dimostrare la sua dignità direttamente alle Potenze alle quali desidera unirsi. Osiride è assiso sul suo trono, col volto dipinto di verde a simboleggiare l’eterna rinascita della vegetazione, la legge ciclica di morte e rinascita che governa tanto gli uomini quanto la totalità delle cose esistenti nel cosmo.
Al termine di questa fase, il defunto s’identificava con lo stesso giudice dei morti, l’antico Signore della terra morto e risorto. Qui termina il viaggio del borghese egiziano, con l’ingresso nei Campi di Giunchi e una vita simile a quella che visse sulla terra.
Tuttavia, accennammo più sopra come nei Testi delle Piramidi il fine del viaggio fosse qualcosa di diverso da un Paradiso: il termine della vita terrena apriva una porta verso altri lidi, verso un’esistenza totalmente diversa. Per gli Egizi, quindi, non v’era una meta nel ciclo dell’esistenza, ma ogni fine era considerata l’inizio di un nuovo viaggio.

 

Fase III: la glorificazione e la vita eonica

Il primo esemplare dei Testi delle Piramidi fu ritrovato nella Piramide di Unas; un aneddoto dell’epoca racconta che un capomastro avvistò, nel bel mezzo del deserto che circonda le Piramidi, uno sciacallo che sembrava invitarlo a seguirlo: lo sciacallo lo fissò, quindi si diresse all’interno della Piramide. Il capomastro lo seguì e quello che vide lo lasciò senza fiato: fino ad allora le Piramidi erano rimaste mute custodi di un mistero irrisolto, ma la Piramide di Unas parlò l’antica lingua di Eliopoli con geroglifici finemente scolpiti, turchesi e oro. Il capomastro comunicò immediatamente la sua scoperta, ma fu solo qualche anno dopo che venne la prima esauriente traduzione ad opera di Sethe, che oggi conosciamo col nome di Testi delle Piramidi.
In epoca più tarda, chi scrive ritiene che lo stesso significato del Cammino nel Mondo delle Cause assuma il viaggio sulla Barca Solare di Ra, presente in vari testi risalenti alla XVII dinastia (e oltre), quali il Libro delle Porte e delle Caverne e il Libro dell’Amduat. In questi testi, alcuni dei quali rinvenuti nelle tombe della Valle dei Re, il re percorre la Via delle Stelle sulla Barca Solare attraverso le 12 prove che più tardi furono attribuite a Ercole dai Greci.
Nei Testi delle Piramidi (ca. 2400-2300 a.C.) il Faraone percorreva un sentiero che si diramava all’interno della Piramide attraverso le pareti orientate verso i punti cardinali e i loro timpani. Il viaggio si svolge in senso antiorario – con l’ausilio di offerte, formule e narrazioni – trascendendo l’ubicazione terrestre del tempio e svolgendosi parallelamente nel cielo, verso cui punta la pietra posta alla sommità della Piramide stessa (la pietra ben-ben, o pietra microcosmica, essendo essa stessa una piccola piramide).
Durante questa Lunga Via egli riceve offerte, viene traghettato e condotto al cospetto dei Neteru affinché essi lo riconoscano loro fratello, loro figlio e loro padre; egli sfugge ai nemici e pacifica i contendenti, supera le prove che gli sono poste innanzi per trionfare infine nel risveglio del suo potere: le sue sorti saranno le sorti dei Neteru con cui s’identifica, la sua potestà è quella dei Neteru che egli ha simboleggiato e servito sulla terra; egli si nutre dell’essenza dei Neteru, dispone della vita e della morte e vede il cosmo oltre i suoi occhi umani.

Unas è il toro del cielo, dal cuore furioso, che vive dell’essenza di ogni dio,
che mangia le loro viscere, quando essi arrivano, col ventre pieno di magia,
nell’Isola della Fiamma […]
Unas è pieno di forza quando le loro magie sono nel suo corpo.
Il suo valore non si allontanerà più da lui perché ha
ingoiato il sapere di ogni dio,
la durata della vita di Unas è l’eternità,
il suo termine la perpetuità.
[c.d. Inno cannibale, Testi delle Piramidi, §273-274]

Nel suo lungo cammino egli s’identifica con lo stesso Atum, creatore dell’Enneade, colui che è senza ombelico poiché non è stato generato da alcuno, colui che è sorto dal suo uovo, cioè è nato senza cordone ombelicale che lo leghi alla vita terrena. Egli fugge la legge d’incarnazione e il suo desiderio e il suo cuore sono rivolti soltanto alla sua sorte di stella imperitura. Senza voltarsi, egli compie i suoi giri e conosce gli Archetipi posti alla guida dei fenomeni. Finalmente, dopo il suo lungo pellegrinaggio sulla terra, egli conosce: egli è.

Ah, Unas!
Vanno i tuoi messaggeri, corrono i tuoi araldi verso tuo padre, verso Atum.
Atum, fallo entrare da te, circondalo col tuo abbraccio.
Non c’è Neter-stella senza la sua controparte:
hai tu la controparte tua?
[Pyr., §215]

Il re, a questo punto, partecipa della vita eonica. Per dare un’idea di cosa siano questi Eoni (diversi dai Geni, che sono creazioni vitali del mago per mezzo del magnetismo animale, dello stato di fede o della volontà) citeremo un passo di G. Kremmerz:

[Gli Eoni] sono degli esseri che, analogicamente all’uomo, vivono in un ambiente che solo Ermete può lasciar penetrare a coloro che gli saranno fedeli. E sono le uniche entità compagne dell’uomo che stanno sulla terra, che è il nostro grande teatro. Più in su non vi sono che le intelligenze ammonie, che percepiscono la sintesi del mondo e, figuratamente, si dice che vedono Dio.
Gli dii o intelligenze hanno perpetuamente lo stesso stato di spirito. Il dolore e il piacere non hanno presa sul loro essere e non mai si commuovono per ragione esterna.
Noi, non essendo dei mistici e lasciando libertà di pensiero a tutti, nel trattare di Magia Naturale parliamo di forze. Queste sono nell’uomo, ma sono anche fuori dell’uomo, perché sono anche forze universali.
[G. Kremmerz, La Scienza dei Magi]

Ecco, dunque, il significato del termine “incorruttibili” riferito a delle Intelligenze che vengono identificate dagli Egizi con le stelle, cioè con i mondi luminosi situati nel Macrocosmo, che brillano di luce propria e rispondono soltanto all’armonia delle sfere, incarnandone la legge.
Lo stesso re ascende alle stelle, le “imperiture”, per godere della loro stessa esistenza e partecipare della natura universale: egli sorge e tramonta con esse, vive e si nutre dell’armonia delle sfere che fu la base della dottrina pitagorica. Colui che era un uomo ora è un Eone.

Unas viene a te, Nut! Nut, Unas viene a te!
Egli ha gettato suo padre sulla terra e ha lasciato Horus dietro di lui. […]
Il suo Ba lo ha portato e lo ha provvisto della sua Potestà (magia).
Apri dunque il tuo trono nel cielo insieme alle stelle,
poiché tu sei la stella unica che sostiene il Verbo (Hu).
[Pyr., §245]

Il cielo è sputato fuori, Sirio vive poiché vive Unas, suo figlio;
e si sono purificate le Enneadi per [mezzo di] lui, nell’Orsa Maggiore, l’imperitura.
Non perirà la casa di Unas nel cielo,
non sarà distrutto il suo trono in terra;
gli umani si nascondono e volano via i Neteru.
[Pyr., §302]

A questo punto il lettore che voglia approfondire il Lungo Viaggio nella sua interezza è invitato a rifarsi ai testi in questione, indicati nella bibliografia.
Per quanto riguarda noi, caro lettore, il nostro viaggio insieme alla scoperta del culto degli Antichi deve qui fermarsi: ci sono idee ed esperienze per cui le parole che conosciamo non bastano e, giunti a questo punto, anche noi le abbiamo terminate.
Immobili sulla pietra microcosmica posta sulla sommità della Piramide, osservando il cielo notturno che si anima dell’essenza dei Neteru e degli antichi uomini glorificati, stanotte non ci sentiremo un piccolo punto sperduto nell’universo, non ci sentiremo solitari esseri di carne senza scopo, e guarderemo lo splendore di Sirio con occhi nuovi. Forse, guarderemo perfino a noi stessi con occhi nuovi, rapiti dal viaggio oltre la materia in cui pare di aver toccato con mano archetipi che, fino a ieri, parevano irraggiungibili.
Un ultimo bisbiglio, prima di lasciare che la pagina venga voltata e la mente s’immerga in altri racconti: “è lo stesso aver compiuto queste cose nell’occulto della Duat o sulla terra. Chi conosce ciò è tra coloro che sono nella barca di Ra in cielo e sulla terra”.
Che il tuo viaggio oltre lo spazio e il tempo possa avere inizio.

Iehuiah

Pubblicato in La Via Ermetica, edizioni Rebis