Il mago finisce dove comincia
“Le parole non colgono il significato segreto,
tutto appare sempre un po’ diverso quando lo si esprime, un po’ falsato, un po’ sciocco,
sì, e anche questo è bene e mi piace moltissimo, anche con questo sono perfettamente d’accordo, che ciò che è tesoro e saggezza d’un uomo suoni sempre un po’ sciocco alle orecchie degli altri”
Herman Hesse, Siddharta
Con questa stessa consapevolezza inizia questa mia confessione che parrà sciocca agli occhi di chi legge, misera cosa o volo di fantasia, perché ciò che si vive con gli occhi dello spirito perde ogni suo significato quando lo si vuol comunicare.
Ciò nonostante, ancor prima di intraprendere questa lunga ricerca della verità che sta oltre la materia tangibile, io scrivevo: riempivo intere pagine fin da quando ho potuto tenere in mano una penna e sempre l’ho trovata una buona abitudine, sempre ho creduto che nella penna ci fosse qualcosa di magico, una virtù di fissare il pensiero e rendere accessibili le esperienze – anche le più intime – a distanza di molto tempo. Basta, infatti, saper scegliere le parole e mischiare i colori, ricreare gli ambienti rarefatti della mente intessendoli di poesia, ed ecco che la sensazione risultante emerge, si colora, torna alla memoria tutta l’esperienza interiore.
Mi dilungherò e tedierò il lettore, quindi, non tanto perché possa capirmi, quanto perché possa cogliere l’esperienza risultante: questo fanno gli scrittori.
È passata più di una dozzina d’anni da un giorno che mi è rimasto nitido nella memoria; non ricordo cosa accadde o cosa indossavo, né come fui in grado di concepire quel pensiero: il senso d’eternità del mio essere.
Aleggiava nell’ambiente rarefatto della mente come un’esperienza tangibile e il cinematografo d’immagini si era fatto lieve, poco invadente, dando semplicemente forma a ciò che l’intelletto concepiva: innumerevoli nascite e seni dai quali avevo preso il latte; migliaia di volte avevo amato, sofferto, gridato e migliaia di volte avevo spirato nella stupefacente e improvvisa quiete della morte.
Non solo questo corpo e questa persona erano reali, ma tutte quelle che non rammentavo, e mentre vivevo questo pensiero il tempo si accavallava e si contorceva: passato e futuro, preveggenza e ricordo.
La chiara visione fu a tal punto illuminante che, pur non comprendendola con l’intero mio essere, la presi come vera e decisi che questa vita mi sarebbe servita a generare un’anima senziente, pervasa da quella consapevolezza, che sapesse vedere oltre, che facesse esperienza di quel turbine di tempo e vita – che, forse, vediamo al momento della morte – e potesse portarlo con sé per vivere un’esistenza piena, cosciente, diversa dalle altre mille già vissute.
Elifas Levi scrisse che “il mago finisce dove comincia”: non so nemmeno come mi sia tornata alla mente questa frase, eppure il pensiero concepito in quel giorno è infine riapparso, riempito di nuovi significati.
Ho avuto molti maestri, in questa vita, se così si possono chiamare sebbene non vantassero tale titolo: alcuni li conobbi personalmente, altri erano defunti da tempo quando incontrai ciò che gentilmente avevano lasciato ai posteri; altri ancora non erano esseri umani ma bisbigli nel vento che all’improvviso l’anima era in grado di udire.
Eppure, le dottrine sono povera cosa se la mente non è tersa: è in un luogo ben più intimo che il semplice cervello che hanno luogo le trasmutazioni, ed è soltanto quando la mente tace o viene guarita che la visione d’eterno si apre innanzi agli occhi dell’anima.
Così, nonostante lo studio e la pratica, nonostante la vita quotidiana causasse dolore, passioni e altri vapori che impediscono la chiara visione, sempre al silenzio tornavo quando un tassello del mosaico doveva essere unito nel disegno sintetico dell’essere individuale immerso nell’eternità.
E il silenzio non sempre mi accoglieva, perché a volte nuove catene s’impossessavano della mente, e tutte quante sembravano reali, chiedevano di essere considerate come questioni di vitale importanza: nonostante sapessi bene che non era così, c’erano momenti in cui lo dimenticavo e, nell’oblio, davo spazio al gran gioco della vita, perdendo la visione d’insieme... eppure non rinnego quei momenti, in cui ho imparato ad amare l’animo umano e tutta la sua folle dedizione, il suo eroismo nella vita quotidiana, le sue tenere pene, le sue illusorie dannazioni.
Soltanto col passare degli anni, lasciando andare lentamente ogni recriminazione, ogni pensiero disturbante quando si affacciava, sforzandomi di guarire gli attaccamenti e di non considerarmi l’unico essere degno di attenzione sulla Terra, riuscii infine a comprendere che nella mente umana c’è un veleno: essa vaga nel passato e nel futuro, rammentando o agognando, perdendosi in se stessa e tuttavia senza alcuna meta, senza alcuna soddisfazione.
Affetta da una strana forma di ignoranza, essa va educata e pulita onde possa generare l’Amore che le permetterà di vedere oltre se stessa: soltanto questa forza sa pacificarla e legare insieme, come visione eterna che accoglie ogni cosa e coniuga pace e moto, vita e morte, ed ogni opposto in un unico senso (uni-versus).
Tutto ha un suo posto nella visione infinita: l’unico inganno che ci impedisce di concepirla nel suo insieme è il tempo, di cui la mente è schiava.
Il tempo, l’inesorabile inganno legato al corpo e all’esperienza spezzettata dell’unità: così, facciamo esperienza della passione e poi della rabbia, prese isolatamente; viviamo frammenti di storia personale non avvedendoci del gran gioco che sta oltre a questa, e che avviene nel medesimo istante, in un estatico riversarsi dell’essere in sé e per sé che, così come siamo, non siamo in grado di comprendere.
Illusione del tempo che, sola, può esser vinta dall’aver concepito Amore: inizialmente, questa forza fa volgere lo sguardo dell’individuo verso altro che se stesso; già in questo modo, molti pensieri disturbanti iniziano la guarigione e perdono di significato. E ad ogni successiva crescita di questo embrione, disposto a guardare oltre, l’intelletto si fa più pulito e terso, finché anche Amore perderà di significato, e altro non resterà da contemplare che la chiara visione: nel silenzio della brama, la Mente è libera.
Essa può giungere in un istante alle alte vette innevate dei monti o fino all’oceano, può alzarsi da terra e contemplare le stelle: tutto ciò in sé e per sé, nella sua visione infinita. E può, infine, trovare rifugio e riposo in se stessa, nella sua propria immota quiete, nel buio ristoratore che al risveglio dalla contemplazione pervade di beatitudine ogni atto, pacifica i contendenti, riempie ogni azione.
E fu esattamente da questa nuova forza che fu riempita quella visione lontana d’eterno, e che le diede vita: nulla era da buttare, né le innumerevoli esistenze né il più piccolo dolore, perché contemplate nel silenzio della mente quieta esse erano accolte, né importanti né non importanti, né mie né altrui. Libera di guardarle o di spingermi oltre, libera di stare o di alzarmi, nulla aveva importanza.
Aveva visto bene Dante, quando scrisse:
Qual è 'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond' elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l'alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'amor che move il sole e l'altre stelle.
Ed ora, dalla chiara visione della Mente libera, emergeva nuovamente quel pensiero d’eterno, ma stavolta avevo generato un cuore in grado di accoglierlo.
Un riversarsi di vita pervase il mio essere e quello che avevo visto non fu più soltanto una chiara visione, ma una realtà: iniziò a vorticare, l’essere, insieme a quel pensiero (che era divenuto lui stesso) e a divenire, trasmutarsi, di continuo, a fluire senza sosta, senza identità; poteva scegliere di esperire una forma o un’altra concentrando il proprio intento, e quando ciò accadeva soffriva o gioiva, eppure l’intelletto rimaneva quieto, ad attendere che l’esperienza fosse fatta, a sovrintendere in assoluta quiete allo spettacolo della vita.
Così, alle volte, questa sapienza mi pervade, per un’ora o un giorno, poi nuovamente vivo e agisco, e provo tutte le emozioni umane con la gioia del grande gioco, col sorriso di chi accoglie qualunque cosa, sapendola vera: il vento sul viso e l’inquieta tempesta, i drammi e le gioie umane, una donna seduta sul marciapiede con suo figlio, vestiti di stracci, e la bellezza perfetta di una fanciulla sono oggi, per me, voci dell’uno allo stesso modo, e ognuna di loro posso onorare senza vergogna, ad ognuna posso dedicarmi, con ogni aspetto della vita posso giocare.
Lascio ai filosofi discutere la falsità delle cose e la vanità del mondo: io amo le cose più che le parole, le trovo belle, le trovo vere.
Al caro Elifas Levi direi, oggi, senza alcun timore: “il mago finisce dove comincia, e quindi ricomincia nuovamente, così come l’essere eterno ha pace ma non ha sosta”.