L’IMMORTALITÀ PERDUTA
ASPETTI INIZIATICI DEL GILGAMEŠ
Nel precedente articolo (“Lucifero Segreto”) ho parlato del lento ma inarrestabile processo di demonizzazione degli antichi déi civilizzatori da cui ha tratto origine la moderna figura di Lucifero, così come viene inteso nella tradizione orale cattolica.
Il lavoro di riscoperta delle civiltà sumerica, akkadica e babilonese si sta rivelando lungo e complesso a causa di diversi fattori, ma voglio già anticipare che da questi studi sta nascendo un testo che spero di pubblicare nel corso del prossimo anno e che tratta del Diluvio Universale, della perdita dell’immortalità dell’uomo, della regalità sacra, della ierogamia, dell’antica magia (che noi ermetisti definiremmo “eonica”) e della magia naturale babilonese che, più che “magia” in senso stretto, potremmo definire la “scienza” di quel popolo… sempre se mi si passa il termine “scienza” inteso come metodo scientifico applicato alla conoscenza della Natura.
La prima delle difficoltà che incontra chi si approcci al Vicino Oriente Antico consiste nel fatto che la tradizione mesopotamica appare, da un lato, caratterizzata dall’unitarietà e dalla continuità delle leggende tramandate dalla scuola scribale, i cui primordi si fanno comunemente risalire al 2460 a.C., anno in cui la scuola fu istituita da re Eannatum di Lagaš; d’altro canto, questa apparente continuità si pone in netta contraddizione con il fatto che il corpus letterario subisce continue modifiche nel corso dei millenni, a seconda del popolo egemone di quel periodo, della sua mentalità e delle nuove divinità che esso introduce nel pantheon preesistente: inevitabilmente, molti “giochi di parole” eruditi si perdono nelle versioni successive.
Per fare un esempio, la maggior parte dei testi che si considerano “sumerici” - popolo alla cui cultura tutti i popoli successivi vogliono riconnettersi in quanto, secondo la tradizione comune, i sumeri sono il popolo mitico, prediluviano, in mezzo al quale camminavano gli déi - è stata tramandata ben dopo la fine dell’egemonia di tale popolo sulla mezzaluna fertile: non è quindi possibile affermare che qualunque componimento redatto in lingua sumerica o riferito ai sumeri sia da attribuirsi a loro, perché sarebbe come asserire che qualunque testo scritto in latino sia attribuibile agli antichi romani; sappiamo invece che il latino fu parlato ben oltre la caduta di Roma, e continuò a rimanere la lingua “dotta” di redazione dei documenti ecclesiastici: lo stesso vale, a quanto pare, per il sumerico, che rimase la “lingua dotta” della classe sacerdotale fino al periodo tardo babilonese. Di qui le difficoltà interpretative date da interpolazioni successive più o meno evidenti.
D’altro canto, esiste un’enormità di testi non ancora tradotti, redatti nella grafia UD.GAL.-NUN, che risalgono al periodo “sumerico” propriamente detto (sebbene si tratti pur sempre di periodo tardo-sumerico), ossia il periodo di Fara e Abu Salabikh: siamo tuttavia ancora in trepidante attesa che queste tavolette, alcune delle quali sembrano parlare dei “giorni antichi”, vengano decifrate.
Sia come sia, abbiamo a disposizione molti testi che possiamo attribuire al periodo di Isin-Larsa (1900 a.C. circa) e al periodo akkadico (2335 a.C., prendendo come riferimento l’impero di Sargon di Akkad): per nostra fortuna, si tratta di tavolette spesso in buone condizioni, sebbene a volte vi si trovino spiacevoli lacune.
In questo lavoro, vorrei soffermarmi sulla comparazione di diverse stesure dell’epopea di Gilgameš, raffrontandola con alcuni testi antichi che trattano un argomento delicatissimo e inesplorato dal punto di vista esoterico: la perdita dell’immortalità da parte della razza umana e la ricerca della “lunga vita” da parte di Gilgameš, re di Uruk.
Il primo documento cui dobbiamo fare riferimento, sia pure en passant, è la cosiddetta “lista reale sumerica”, che viene citata come fonte storiografica da tutti i principali testi sul Vicino Oriente Antico ma il cui contenuto non viene mai affrontato apertamente. E il motivo di questo silenzio, a ben guardare, è semplice: proprio come la lista predinastica egiziana compilata da Manetone, anche la lista reale sumerica parla di regni millenari.
Ricordiamo che Manetone voleva che la storia predinastica dell’Egitto fosse iniziata nel 30.544 a.C. con la dinastia degli dèi, che dura complessivamente 13.900 anni e di cui Ausar (Osiride) è il quinto sovrano. Segue la dinastia dei semidei e, successivamente, una prima stirpe di re umani che regna per 1.817 anni, seguita da altri trenta re che regnano complessivamente 1.790 anni. L’ultima dinastia citata dallo storico è formata da dieci re, che regnano su Tebe per 350 anni.
Venendo alla Lista Reale sumerica, è da dire che questo documento si spinge ben oltre Manetone: compilato nel 1900 a.C. nella sua ultima stesura, la Lista parla di un regno antecedente il Diluvio, in cui dieci re regnarono per 240.400 anni. Leggiamo infatti, in apertura: “Dopo che la regalità calò dal cielo, il regno ebbe dimora in Eridu. In Eridu, Alulim divenne re; regnò per 28.800 anni”.
Dopo l’elenco dei primi dieci re di Eridu (l’ultimo dei quali è Zin-Suddu, che conosciamo sotto il nome di Ziusudra/Utnapishtim/Atrahasis, l’eroe del Diluvio), la Lista continua dicendo: “Il Diluvio cancellò ogni cosa. Dopo che il Diluvio spazzò via ogni cosa e la regalità fu discesa dal cielo, il regno ebbe dimora in Kish”.
Non possiamo sapere quanti anni siano racchiusi nella frase “dopo che il Diluvio spazzò via ogni cosa”; dopo questa sola riga, semplice e nuda, la Lista prosegue ma i re si fanno più numerosi e la durata delle loro vite è decimata. Etana di Kish, ad esempio, che viene detto “colui che stabilizzò il Paese”, “colui che ascese al cielo e consolidò tutte le contrade straniere”, governò per “appena” 1.560 anni… e così via, fino a giungere al protagonista del nostro racconto, Gilgameš di Uruk, l’ultimo re che regnò per più di 100 anni.
Non è forse un caso che l’eroe Gilgameš, che appare appunto nella terza parte della lista reale sumerica, fosse ossessionato dall’immortalità e dalla lunga vita: i regni dei sovrani prediluviani duravano decine di migliaia di anni ed egli, dal canto suo, poteva vantare di essere “per due terzi divino e per un terzo umano”. La maggior parte di noi ha studiato il poema di Gilgameš a scuola (dgiš-bil2-ga-mes in sumerico, Gilgameš in akkadico): si tratta del primo testo epico di cui si abbia notizia e la cui storia può essere riassunta nel verso ḫa-a-a-iṭ kib-ra-a-ti muš-te-'-ú ba-lá-ṭi, verso che Giovanni Pettinato ha tradotto con “Colui che scrutò i confini del mondo alla disperata ricerca della vita eterna” (I, 41 dell’epopea babilonese).
L’epopea classica fu compilata ad opera di uno scriba babilonese nel XII secolo a.C., sulla base di versioni più antiche: lo stesso testo è presente in versione paleo babilonese (1800-1600 a.C.), il cui “titolo” è /šu/-tu-ur e-li š[ar-ri]: “Egli è superiore agli altri [re/uomini]” e vi sono, inoltre, 6 poemi epici redatti nel III millennio a.C. (2200-2000 a.C.), redatti in lingua akkadica e hurrita.
Le più antiche narrazioni delle gesta del re mitico, anche se non si presentavano sotto forma di unitario racconto epico, risalgono proprio a Sumer e si trovano anche su numerosi bassorilievi e sigilli cilindrici dell’epoca.
In buona sostanza, il testo narra delle gesta del re Gilgameš di Uruk, “per due terzi divino e per un terzo umano” e del suo amico Enkidu “il selvaggio”.
Mentre tutti conoscono il re-semidio Gilgameš, l’iniziazione di Enkidu è un aspetto centrale della vicenda narrata e occupa la parte iniziale del poema: gli déi, infatti, volendo equilibrare la forza violenta e insaziabile del re, che costringeva gli uomini a seguirlo in continue battaglie, crearono Enkidu, che ci viene presentato come una creatura selvaggia che viveva nella steppa.
La vicenda di Enkidu è un argomento delicato, che riveste una notevole importanza: è detto, infatti, che “la dea Aruru […] immaginò in sé un’immagine del dio Anu, inumidì le proprie mani, impastò l’argilla, ne modellò i contorni e plasmò il coraggioso Enkidu” [SILO, Miti-radice universali, p. 319, in Opere complete, vol. 1, Torino, 2000].
“Immaginò in sé”: cioè, concepì un’immagine e quindi le diede forma nell’argilla. Ritroveremo il potere dell’immaginazione creatrice, intesa come stato alterato di coscienza, in tutta la successiva letteratura babilonese sulla divinazione. Similmente, nel mito di Enki sulla civilizzazione della terra, troviamo gli déi maggiori Anu ed Enlil che “concepiscono l’immagine” del mondo, il quale successivamente sarà portato in manifestazione da Enki, il “principe di saggezza” che dimora nell’Abisso dell’Abzu.
Il selvaggio Enkidu, questa creatura che Aruru crea dall’argilla a immagine e somiglianza di Anu, dio del cielo, viene successivamente iniziato da una ierodula, ossia una conoscitrice dei misteri iniziatici dell’energia sessuale che ricorda molto l’agubica assira Myria, protagonista de “Il ritorno” di G. Kremmerz. Questa ierodula, Šamḫat, nel corso di “sei giorni e sette notti” riesce a fare di Enkidu un eroe, da selvaggio che era.
Ebbene, il passo incriminato oggi viene letto semplicemente come una maratona sessuale tra Šamḫat ed Enkidu, ma a mio parere si tratta di qualcosa di ben diverso: per comprendere la natura dell’iniziazione da parte della ierodula bisogna avere alla mente la regalità sacra e il valore che gli antichi attribuivano al sesso sacro. Si noti infatti che, in tutte le vicende iniziatiche in cui confluiscono aspetti sessuali, l’energia erotica entra in gioco con funzione trasmutatoria: anzitutto, questo potere creatore è prerogativa degli dei; nella razza umana, infatti, solo i prescelti direttamente dagli dei e le sacerdotesse che “incarnano” la dea Inanna (o Ningal, la consorte di Nanna nel culto di Ur, il cui tempio risale almeno al XIX sec. a.C.), detengono questo tipo di potere, tramite il quale veniva iniziato l’uomo che sarebbe divenuto re. È chiaro che non potremo mai comprendere questo tipo di erotismo, finché non ci toglieremo dalla testa l’idea che la sessualità corrisponda alla penetrazione: per gli antichi non è così.
Troviamo un esempio di questo potere sessuale divino, ossia dell’estasi creatrice resa in maniera umanamente comprensibile, in un testo sulla ierogamia tra cielo e terra che risale all’epoca del re Šulgi della III dinastia di Ur (2094 - 2047 a.C.):
“Il cielo An fece lussureggiante la vegetazione, la fece risplendere in tutta la sua maestà,
la pura terra (KI) si presentò in tutta la sua beltà al puro An in un posto immacolato;
An, l’alto cielo, consumò il matrimonio con la vasta terra:
egli depositò nel suo grembo il seme degli eroi, il legno e la canna;
la buona terra, la provvida vacca, accolse il buon seme di An;
la terra si prodigò nell’assicurare una nascita felice alle Piante della Vita”.
Sempre sull’iniziazione di Enkidu dobbiamo soffermarci un istante e riprendere il racconto del Diluvio di Athrahasis, di cui ho parlato diffusamente in Lucifero segreto; interrogato da Gilgameš sul segreto della vita eterna, il saggio gli risponde: “chi potrà far radunare per te gli dei in modo che tu trovi la Vita che tu cerchi? Orsù, cerca di vegliare per sei giorni e sette notti!”.
È abbastanza evidente che “sei giorni e sette notti” non è da intendersi in senso letterale e dietro questa formula sacramentale si cela un tempo simbolico: questo stesso periodo di tempo simbolico, di sei giorni e sette notti, sembra identificare il tempo necessario per la trasformazione delle cose; lo ritroviamo infatti nella durata stessa del Diluvio e nell’ascesa di Adapa (figlio di Enki, che aveva ricevuto la saggezza ma non l’immortalità) al cielo, durante la quale viene ricevuto direttamente dal dio An [SH. ISRAE’EL, The Initiation of Adapa in Heaven, Praga, 1998, 185].
Nonostante questi cenni riescano a far cadere qualche velo, il passo rimane oscuro: esisteva dunque qualche conoscenza segreta che poteva fare del selvaggio un eroe e dell’eroe un immortale? E perché, per addentrarsi in questa conoscenza trasmutatoria, Enkidu ha bisogno della guida di una ierodula, mentre Athrahasis sembra suggerire a Gilgameš che il tramite della sacerdotessa non sia necessario?
Dopo l’iniziazione di Enkidu ad opera della ierodula Šamḫat, il selvaggio e il re di Uruk diventano grandi e inseparabili amici: le loro energie si esaltano e si contengono a vicenda, dando vita a un’alleanza che li porterà a scoprire misteri sepolti.
Leggiamo infatti nel prologo dell’epopea che “egli [Gilgameš] vide ciò che era segreto, scoprì ciò che era celato, e riportò indietro storie di prima del diluvio”.
La prima delle loro prove insieme consiste nel recarsi presso il “Giardino dei Cedri”.
Storicamente, una Foresta dei Cedri è esistita ed era localizzata nell’alta Siria, vicino a Ebla, città nota già nel III millennio a.C. per il commercio di legname con la Mesopotamia e con l’Egitto.
Nella versione classica, di epoca babilonese, Gilgameš ed Enkidu si recano effettivamente alla foresta per ottenere del legname pregiato, con cui costruire un’alta porta per la città di Uruk.
Ben diversa è però la versione più antica del mito, in cui lo scopo della missione di Gilgameš è quello di conquistare il “mattone della vita”, cosa che appare coerente con il termine che designa la foresta nel poema paleobabilonese, kur lu2 til3-la, che qui non significa soltanto “foresta dei cedri” bensì, letteralmente, “il paese (o montagna, “kur”) che dà la vita” [per “poema paleobabilonese” si fa riferimento a Gilgameš e Ḫubaba, versione "lunga" di Nibru/Nippur in sumerico: en-e kur lu2 til3-la-še3ĝeštug2-ga-ni na-an-gub; Il signore decise di muoversi verso la montagna che dà la vita all'uomo].
È proprio Gilgameš a dirci, sulla sua ricerca:
“nessun uomo l'ha (finora) avuta vinta sull’eccelso “mattone della vita”
Io voglio entrare nel Kur, voglio porre colà il mio nome;
nel luogo dove ci sono già gli steli, voglio porre il mio nome;
nel luogo dove non ci sono gli steli, voglio porre il nome degli dèi.”
[Traduzione di Giovanni Pettinato, in La Saga di Gilgameš, p. 323].
Ebbene, il termine “kur” ha tre diversi significati: da un lato, Kur significa “montagna” e, in senso lato, paese straniero: veniva adoperato dai sumeri, ad esempio, per indicare coloro che abitavano sulle montagne.
In secondo luogo, viene associato al terreno e, in senso lato, agli Inferi.
Nella letteratura a carattere mitologico, poi, il termine Kur assume la valenza di “paese altro”, un mondo esterno legato alla sfera divina: il Kur, ad esempio, è anche la “Santa Collina degli déi” [Cfr. ROSENGARTEN, trois aspects, 10-12].
Ecco, dunque, la Foresta dei Cedri dell’epopea di Gilgameš: la “Montagna/Paese che dà la vita” o “Montagna/Paese del vivente”, kur lu2 til3-la. Ed ecco anche un valido esempio dei giochi di parole degli scribi mesopotamici!
Anche Inanna, un tempo, si era recata nel “Kur dei Cedri”, meta del primo viaggio del re di Uruk, e dopo averne mangiati ne era uscita trasformata e conoscitrice dei misteri della sessualità.
In questo mito, scritto in sumerico ma forse di epoca più tarda, ossia paleo babilonese (2004-1595 a.C.), Inanna si reca dal fratello Utu e gli dice: “signore del cielo, io voglio navigare con te verso il Kur, verso il Kur delle essenze, il Kur dei Cedri […] quello che compete alle donne, l’uomo, io non lo conosco; quanto compete alle donne, il sesso, io non lo conosco […]Ciò che si trova nel Kur, io lo voglio mangiare […] Dopo che avrò mangiato le essenze, dopo che avrò mangiato i cedri, prendimi per mano e portami alla mia casa.” [Kramer, 1985, pp. 117 ss.]
Non sappiamo cosa Inanna voglia mangiare nel Kur (né cosa Gilgameš stia cercando nel Kur, se non fosse per l’allusione a un misterioso “mattone della vita”), ma date le premesse possiamo capire perché sia necessario l’intervento del dio del sole, che sulla sua barca percorreva la volta celeste e raggiungeva quelle lande lontane in cui lei desiderava giungere.
Soltanto dopo avere mangiato i frutti di quel mondo e avere conosciuto il significato della parola “amore”, Inanna si dice disposta a tornare alla sua casa.
Mi è del tutto impossibile tacere il fatto che ci troviamo in presenza di un sumerico “albero del bene e del male”, situato in un paese divino, i cui frutti portano la conoscenza sessuale.
Inanna, infatti, in epoca storica è la dea dell’amore e della guerra, ma in questo mito (che presumo ne riprenda, a sua volta, uno molto antico) ella addirittura afferma di non sapere cosa sia l’amore e ha bisogno di recarsi nel Kur e mangiare i suoi frutti per ottenere questo tipo di conoscenza che, come vedremo, è una conoscenza sacra e diventerà la chiave per l’iniziazione di uomini e re.
E in un’iscrizione dedicata a Inanna da parte di re Gudea (che regnò a Lagaš dal 2140 al 2120 a.C.), la dea viene appunto chiamata “nin.kur.kur.ra”, sovente tradotto con “signora delle montagne”; per quanto detto finora, appare tuttavia più corretto l’epiteto di “signora dei Kur”.
Dopo l’avventura nel Giardino dei Cedri, l’epopea di Gilgameš assume definitivamente e inequivocabilmente carattere iniziatico, con toni poetici e drammatici che si susseguono a un ritmo incalzante: Gilgameš, dopo aver pianto l’amico Enkidu (che nel frattempo è morto), inizia un lungo viaggio verso la terra degli uomini-scorpione, gli unici in grado di svelargli la via per la dimora di Utnapishtim/Ziusudra, l’eroe del Diluvio, l’ultimo uomo immortale.
Gli uomini-scorpione, pieni di pietà per la condizione umana cui deve sottostare il semidio, rispondono a Gilgameš che la strada per la dimora di Utnapishtim si snoda attraverso quella che sembra una sorta di caverna, identica a quella descritta nel “Libro dell’Amduat” egiziano, e lo mettono in guardia dall’attraversarla: “O Gilgameš, a nessun uomo ciò è mai riuscito! della montagna nessuno ha mai attraversato le viscere, il suo cuore è buio per dodici doppie ore, densa è l’oscurità, non vi è la luce!”.
Ricordiamo che il libro dell’Amduat è chiamato dagli antichi “Il libro della Camera Nascosta” ed è il più antico dei componimenti connessi al viaggio dell’anima nell’Aldilà, nonché quello maggiormente rappresentato nelle tombe della Valle dei re: tratta del viaggio del Dio Sole nelle 12 divisioni dell’aldilà, corrispondenti alle 12 ore della notte, fino alla completa rigenerazione e all’uscita alla luce del giorno [Per approfondire: B. De Rachewiltz, Il Libro Egizio degli Inferi –Testo iniziatico del Sole notturno, 2012, Ed. Terra di Mezzo].
Senza farsi scoraggiare, il re di Uruk attraversa il cuore della Montagna-Kur attraverso le dodici “doppie ore” fino a giungere, dopo un viaggio interminabile, al Giardino del Dio Sole, dove una sfolgorante luce lo accoglie e intenso è l’odore, ancora una volta, dei Cedri.
Si noti che questo Giardino del Sole in cui vive Utnapishtim viene chiamato anch’esso kurlùtila, “il paese (o montagna) del vivente”, proprio come la foresta dei Cedri in cui inizialmente si recano Enkidu e Gilgameš nella versione paleo babilonese.
Al di là della buia montagna, nel Paese del Vivente, Gilgameš scorge per prima cosa una taverna.
Si noti che, fin dalla più remota antichità, le taverne sono luoghi sacri alla dea Inanna, la Stella del mattino e della sera. Ella, sorgendo dopo il tramonto o prima dell’alba a seconda delle stagioni, è chiamata “signora dei crepuscoli”, appellativo sul quale torneremo più approfonditamente.
Per ora, basti dire che la taverna, così come la birra (bevanda sacra a Inanna), rappresenta per l’uomo l’esperienza “crepuscolare” dell’ebbrezza, poiché per suo tramite l’animo viene trasportato nella zona di confine tra il giorno e la notte, il sonno e la veglia, su cui regna la dea. Altri stati simili, che caratterizzano la presenza di Inanna nell’uomo, sono il furore della battaglia e l’estasi erotica: si noti che sono tutti stati di transizione, al limite fra la coscienza e l’incoscienza, in cui la forza vitale esplode prepotente, primitiva e irrefrenabile, e può manifestare tanto il volto della dea della guerra quanto quello della dea dell’amore; questa duplice forza può essere cioè creatrice o distruttrice.
Probabilmente, il simbolismo della taverna indica che Gilgameš non si trova ancora nella dimora di Utnapishtim, ma in una zona di passaggio fra la terra dei mortali e quella degli immortali, in un limbo crepuscolare.
In questo limbo, dunque, il re entra nella taverna, e al suo interno una taverniera lo accoglie e lo informa che la dimora di Utnapishtim si trova al di là di acque mortifere che gli esseri umani non hanno mai attraversato: soltanto il traghettatore Urshanabi, del popolo di “quelli-di-pietra” (?), può condurlo oltre quel mare.
Esasperato e stanco, il re di Uruk si addentra nel territorio di quel popolo e trova infine il battelliere, che lo sottopone a una prova ulteriore per attraversare il mare della morte: Gilgameš dovrà costruire una barca secondo precise istruzioni e remare a sua volta insieme al traghettatore, che in tal modo lo conduce finalmente da Utnapishtim.
La storia che l’immortale racconta al re è lunga e drammatica: vi è una descrizione commovente del Diluvio vissuto dal saggio in prima persona, in un tempo che per gli uomini è leggenda. In seguito al Diluvio, infatti, gli dèi avevano concesso l’immortalità a Utnapishtim, ma al contempo l’avevano confinato nel “kurlùtila”, in modo che il segreto dell’immortalità fosse celato agli uomini.
È proprio nel corso di questa lunga conversazione che l’immortale esorta Gilgameš a non dormire “per sei giorni e sette notti”, onde ricevere la lunga vita dall’assemblea degli dèi. Ma il re, spossato dal lungo viaggio, scivola in un sonno di pietra.
Al suo risveglio, fallita la prova, la moglie di Utnapishtim gli suggerisce che nell’Abzu, tra le acque amare, cresce una pianta che è in grado di donare una seconda giovinezza: non si tratta di una vera immortalità, ma del rinnovarsi del vigore della gioventù.
Il re accetta la sfida e si tuffa nell’abisso dell’Abzu, la dimora sotterranea di Enki, e trova la pianta promessa, ossia “la pianta dell’irrequietezza”, tradotta anche come “pianta della vita”, con la quale si punge le mani.
A questo punto, il re e gli immortali si accomiatano e Gilgameš, incamminandosi verso casa, decide di non tenere la pianta per sé ma di portarla a Uruk, affinché possano trarne beneficio anche tutti i vecchi della città.
Ma anche la seconda giovinezza sembra essere un dono che, dopo il Diluvio, gli dèi possono decidere di concedere solo individualmente; essa è un dono non condivisibile: non appena il re formula il pensiero di condividere la pianta con tutti i suoi concittadini, un serpente - animale sacro a Enki - si avvicina a Gilgameš, attratto dalla fragranza della pianta, e la divora... sicché nulla rimane nelle mani del re di Uruk come ricompensa per il suo lungo viaggio.
Enki, così, manteneva il suo giuramento, secondo cui gli uomini non avrebbero più ricevuto l’immortalità: forse, se Gilgameš avesse tenuto per sé il segreto della seconda giovinezza, con uno stratagemma Enki avrebbe potuto lasciargli la pianta, asserendo di non aver violato alcun patto, così come era accaduto nel mito del Diluvio…
Sia come sia, Gilgameš è l’ultimo re mitico ad affrontare la ricerca dell’immortalità perduta dalla razza umana; e dopo la sua cerca, in effetti, gli anni di regno dei suoi successori diventano definitivamente umani, come si vede nella lista regale della prima dinastia di Uruk: nessun re regnerà ancora per migliaia, né per centinaia di anni.
L’epoca d’oro è finita, gli uomini periscono, Gilgameš è stato l’ultimo uomo-dio e gli dei - perfino Enki - si ritirano dalle vicende umane.
È il tempo dell’iniziazione aristocratica e della regalità sacra: comincia il tempo della magia, della pirišti šamê (“conoscenza segreta del Cielo”) accompagnata dalle prescrizioni di segretezza (mūdû lā mūdâ lā ukallam: “colui che sa, non riveli a chi non sa!”).
Iehuiah
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