Elogio della solitudine
1. - In un mondo in cui almeno cinque sesti degli uomini sono furfanti, folli o babbei, per ogni individuo del rimanente sesto, quanto più si distingue dagli altri, la base del suo sistema di vita deve essere l'esistenza appartata, e quanto più è tale, tanto meglio. La convinzione che il mondo sia un eremo in cui non bisogna tener conto della società deve diventare una sensazione e un'abitudine. Come le pareti limitano lo sguardo, che poi torna a dilatarsi quando davanti a sé ha soltanto campi e campagna, così la società limita la mia mente e la solitudine torna a dilatarla. Giordano Bruno dice di colui che cerca e raggiunge la verità che, da uomo comune, civile e urbano, diventa un selvaggio, simile a un cervo o a un anacoreta, e tutti coloro che in questo mondo avrebbero voluto godere di una vita più elevata direbbero all'unisono: "Ecco, fuggii lontano e rimasi in solitudine". Infatti, l'occuparsi di cose divine li ha resi come morti per la massa. Parimenti, Kleist ha sentenziato, con l'approvazione di Schiller: "Un vero uomo deve tenersi lontano dagli uomini".
In un mondo così spregevole, tutto ciò che non lo è inevitabilmente si isolerà, ed è proprio quanto è accaduto. Più ci si può affrancare dalla società degli uomini, meglio si sta. Come un affamato non tocca un'erba incommestibile o addirittura velenosa, così chi sente il bisogno di società deve fare lo stesso con gli uomini, per come sono. È perciò una grande e rara fortuna possedere in proprio tutto il necessario per non essere spinti dalla noia e dal tedio di sé a cercare la società degli uomini, dei quali perfino il nobile e mite Petrarca afferma: "Infatti l'uomo non è soltanto un animale vile e ripugnante, bensì - lo dico controvoglia, e magari l'esperienza non lo avesse reso tanto noto e manifesto e non continuasse a renderlo tale - anche dannoso, volubile, infido, ambiguo, feroce e cruento!"
2. - Penso con Tommaso di Kempen: "Tutte le volte che sono stato tra esseri umani, sono ritornato meno uomo". Certo, Goethe afferma che il dialogo dà ancora maggior sollievo della luce. Tuttavia è meglio non parlare affatto piuttosto che intrattenere un colloquio così gramo e stucchevole come quello che si ha di solito con i bipedes: in esso tre quarti di ciò che a uno viene in mente di dire non andrebbe detto per motivi tanto futili quanto necessari, e la conversazione in effetti non è altro che un penoso funambolismo sulla sottile linea di ciò che è concesso di dire senza pericolo. Di regola ogni dialogo - a eccezione di quello con l'amico e con l'amata - lascia uno sgradevole retrogusto, un lieve turbamento della pace interiore. Invece, ogni occupazione della mente con se medesima ha come effetto una risonanza benefica. Se mi intrattengo con la gente, recepisco opinioni che sono per lo più sbagliate, piatte o menzognere, ed espresse nel misero linguaggio del loro spirito. Se mi intrattengo con la Natura, essa porge - vera e schietta - l'intera essenza di tutte le cose di cui parla, ben visibile e inesauribile, e mi parla nel linguaggio del mio spirito. I miei pensieri e il modo in cui comunicarli sono una questione che mi sta molto a cuore. Ma questo nei bipeds di norma non accade: nel loro libero pensare e parlare non c'è un vero interesse, e il loro prendervi parte manca di ardore perché se ne lascino coinvolgere pienamente. Perciò dedicano sempre molta attenzione all'ambiente circostante, tanta che nell'immediato non riesco nemmeno a immaginare. Mentre il mio sguardo è fissato su un punto, il loro vaga a vuoto, e ogni rumore molesto è il benvenuto. Mai, dunque, posso considerare miei simili gli uomini, soprattutto quando per esempio li vedo strepitare insensatamente o stare ad ascoltare l'abbaiare dei cani o tenere canarini.
3. - In ogni epoca c'è stata nelle nazioni civili una stirpe di monaci naturali, gente che, cosciente di possedere capacità intellettuali superiori, ha anteposto a ogni altro bene la formazione e l'esercizio di queste, e quindi ha condotto una vita contemplativa, cioè attiva in senso spirituale, i cui frutti sono poi andati a vantaggio dell'umanità. Essi hanno rinunciato, di conseguenza, alla ricchezza, al guadagno, alla fama terrena, ad avere una famiglia propria: così vuole la legge di compensazione. La classe per gerarchi più nobile dell'umanità, del cui riconoscimento chiunque si onora, rinuncia alla comune nobiltà con una certa umiltà esteriore, analoga a quella dei monaci. Il mondo è il loro monastero, il loro eremo. Ciò che uno può essere per l'altro ha limiti assai ristretti: in fondo ciascuno è e rimane solo. Si tratta allora di capire chi sia solo. Fossi un re, per quel che mi riguarda non darei con tanta frequenza e insistenza altro comando che questo: lasciatemi solo! Persone come me dovrebbero vivere nell'illusione di essere l'unico uomo su un pianeta deserto, e fare di necessità virtù. La maggior parte della gente si accorge, già nel momento in cui fa la mia conoscenza, che non può essere nulla per me, e io nulla per loro. Possedendo un grado più elevato di coscienza, quindi un'esistenza superiore, la mia saggezza di vita consiste nel mantenere puro e imperturbato il godimento di essa, e a tale scopo non pretendere nient'altro. Perciò è già molto se con l'età e l'esperienza si raggiunge alla fine una vue nette dell'intera miseria morale e intellettuale degli uomini in generale. Così non si è più tentati di lasciarsi coinvolgere oltre il necessario, non si vive più continuamente in un dilemma come quello tra la sete e una disgustosa tisana, non ci si lascia più indurre in illusioni e a pensare gli uomini come si vorrebbe che fossero, tenendo invece sempre ben presente come sono. Perciò, anche in questo caso:
"Il miglior liberatore dell'animo è chi ruppe i legami
che opprimevano il cuore e cessò di dolersene una volta per tutte". (Ovidio)
Mi sono abituato a sopportare molto da parte degli uomini perché ben presto ho capito che non potevo agire altrimenti se in qualche modo volevo avere a che fare con loro. Ma questa massima si forma in gioventù, quando si ha bisogno del rapporto con gli altri. L'esperienza e la maturità lo rendono superfluo, e sarebbe dunque folle riconquistarlo al prezzo di un'infinita pazienza. È meglio, come dice Goethe, abbandonare tutta questa gente a Dio, a se stessa, al diavolo:
"Vada al diavolo il genere umano!
C'è da diventare furiosi!
Con fervore mi propongo allora
di non vedere anima viva,
di abbandonare tutti a Dio,
a se stessi, al diavolo!
E non appena scorgo un viso umano
riprovo per esso affetto".
Se non si vuole essere un balocco in mano a qualsiasi ragazzo o lo zimbello di ogni pazzo, la prima regola è: restare abbottonati! Ciò che pensa e sente un mio pari non assomiglia per nulla a ciò che costoro pensano e sentono. Perciò mi conviene rimanere ermeticamente chiuso in me stesso. Il tono giusto nei loro confronti è l'ironia; ma un'ironia senza alcuna affettazione, pacata, che non si tradisce. Non deve mai essere diretta contro colui con cui si sta parlando. Non avere mai smesso di praticarla lo considero ogni volta una vittoria personale. Ci si deve abituare ad ascoltare qualunque cosa, anche la più folle, in tutta pacatezza, considerando l'insignificanza di chi parla e della sua opinione, ed evitando qualsiasi conflitto. In questo modo, più tardi si potrà ripensare alla scena con un senso di soddisfazione di sé. Si deve mantenere sempre presente l'intero: se ci si ferma al dettaglio, è facile sbagliarsi e si ha solo una visione errata delle cose. Non si potrà mai giudicare il corso di un fiume da questa o quell'ansa. Non si deve badare al successo o all'insuccesso del momento, e all'impressione che suscitano. Da come gli altri si comportano con noi non dobbiamo desumere e apprendere chi siamo noi, bensì chi sono loro. In quest'ultimo senso possiamo osservare il loro comportamento con freddezza, nel primo no. In una conversazione a due, di solito ciascuno si prende in certa misura gioco dell'altro. Pertanto, in ogni attimo di fredda razionalità si ripenserà con una sensazione di trionfo a ogni attimo di ironia, con vergogna a ogni effusione sentimentale. Mai si deve accondiscendere al piacere di parlare per parlare, perché la loquacità si trasforma in schiettezza. Si osservi soltanto quanto diversa è la faccia che uno fa mentre ci ascolta da quella che fa quando ci parla.
Arthur Schopenhauer