"Io servo" e "Io curo"
Nel Catechismo della Miriam Kremmerz scrive che “terapeuta” ha il doppio significato di “io servo” e “io curo”. Credo che alcune brevi riflessioni possano essere utili per sfuggire alla consuetudine di dare ogni cosa per scontata, dimenticandosi che, forse, tutto è stato detto, ma che, di certo, tutto o quasi tutto è da realizzare.
“Io servo”: che cosa? Il terapeuta serve un Idea-le che è quello dell’Amore Puro e Incondizionato. “Puro” perché fiamma e calore vitale – pyr o anche purere – vivo e vero in spirito e carne – cioè quotidie. Avete mai sentito un uomo o una donna dire alla sua dolce metà: “sappi che ti amo… stop!.. Con tutto il cuore… stop!” come nei telegrammi dei vecchi film western? No di certo! Amare significa porsi in uno stato di calore e vibrazione luminosa e solare che in sé stessa è già numinosa! Tale amore, poi, deve – sottolineo il deve – essere incondizionato, deve cioè tradursi quale moto spontaneo dello spirito in una vibrazione che ha come fine ultimo la vita nella sua totalità, o meglio – per non scadere in facili, mistiche e filosofiche astrazioni – il principio o scintilla vitale che dimora in chi il terapeuta è chiamato a curare. Così l’Amore è quello stato vibrazionale della materia uomo (dal fisico all’iperfisico senza soluzione di continuità) in cui il principio vitale, destandosi, riconosce quello a lui simile, analogo e identico ma assopito e ottenebrato del malato, risvegliandolo a sua volta. Ma come fare per realizzare questo stato di purità incondizionata?
“Io curo”! Sì, certo, ma io curo chi? Innanzitutto e principalmente me stesso. Se è vero, come la tradizione spagirica afferma associando ad ogni malattia un’astralità, che ogni male fisico ha un suo corrispettivo psichico, come si può pretendere di aver “liberato” e reso attivo il principio vitale che alberga in noi se non siamo riusciti a riconoscere e a sciogliere quei nodi che opprimono la luce interiore? Non affermo, semplicisticamente, che per guarire un depresso bisogna essere stati dei depressi, ma che occorre che le proprie notti buie dell’anima siano state affrontate e superate – ricordandosi che si fa sempre il meglio che si può – consentendo al proprio principio vitale, decondizionato dalle sovrastrutture (o se preferite larve emozionanti) del nostro vissuto, di illuminare noi stessi e chi a noi si rivolge per alleviare le proprie sofferenze. Inoltre, credo che ogni qualvolta si sciolgono dei nodi si sviluppino veri e propri “anticorpi psichici”. Kremmerz affermava che gli antichi ritenevano le malattie cagionate da esseri invisibili al pari della medicina moderna che parla di microbi non visibili ad occhio nudo. Non potremmo riconoscere anche noi nei geni delle nove lune di Ixeratubaba, ad esempio, che secondo l’Anonimo Napolitano si scagliavano armati di spade e lance contro i Mokesc – le malattie – quella sorta di “globuli bianchi e anticorpi psichici” sviluppati da chi ha curato sé stesso? “Genio” viene da genus, generato e generante: immaginate una catena di anime oranti con un siffatto sistema immunitario…
Questa metafora mi ha fatto sorridere molto quando l’ho pensata; così, spero che, insieme a qualche seriosa riflessione, sia riuscito ad offrire anche un sorriso, poiché – grave dimenticanza – l’amore puro e incondizionato è anche, nonostante e al di là dei mali umani gioviale gioia di vivere.
Qui Artem Discit
Accademia Kremmerziana di Catania "Isi-Diana Aradia"